8. Il Paese più bello e il più brutto del mondo

L’enorme cimitero del Monte Carmelo al Queens si estende per circa dieci chilometri. Vi è seppellito anche il celebre mago Houdini. Lapidi in ordine sparso, di ogni epoca, disseminate ai due lati della highway che porta in direzione Manhattan. Un abnorme memento mori a beneficio (o a monito) di chi guida con piglio sicuro la propria auto a pochi metri di lì.
America, grande Paese! Ma sono tante, tantissime le contraddizioni. Ad alcune in questo mio diario americano ho già accennato: la povertà nascosta, ad esempio. Gli homeless spuntano da ogni parte. Una razza subumana che vive in una sorta di dimensione parallela a quella della cosiddetta normalità, in alcuni angoli addirittura in gruppo. Basta un cantiere che ha rallentato i lavori, un divieto di accesso, un negozio chiuso per restauro ed ecco che spuntano i cartoni, le buste di plastica, le coperte, in alcuni casi per decine di disperati coalizzati spontaneamente in una sorta di comunità primitiva di non-vivi.


Ma voglio anche fare anche due altre esempi un po’ meno angoscianti per descrivere la paradossalità del vivere americano.
Il primo è un caso storico. Negli anni del Novecento l’architetto Robert Moses si arrovellò su un problema che gli stava molto a cuore: tenere i neri lontani dalla contea di Nassau, a est di Long Island. Ebbene, ancora oggi sull’autostrada sono visibili i bassissimi (e pericolosi) ponti in pietra che servirono per tenere lontani gli autobus della gente di colore. Di lì ci poteva passare solo chi si poteva permettere un’automobile, quindi un benestante. Bianco, I suppose.
Il secondo paradosso a stelle e strisce sono i pali della luce. Fatta eccezione per Manhattan, dove ogni tipo di circuito elettrico è regolarmente interrato, basta uscire di qualche centinaio di metri sui tunnel o sui ponti ed ecco comparire scenari da terzo mondo lungo le strade. La modernissima e ipertecnologica America, di Uber e del vivere digitalizzato, non riesce ad evitare il confronto con Freetown o con uno slum di Bombay. Tanto per cominciare i pali sono in legno. Proprio così. Come nell’ottocento. Ma il problema è un altro e cioè che sulla loro superficie sono inchiodati, agganciati in modo molto rozzo fili e connettori di ogni tipo, completamente alla rinfusa, senza nessuna logica se non quella dell’aggiunta. Un filo non serve più? Lo si lascia lì e se ne aggiunge uno nuovo. Il risultato è uno scenario preistorico, tecnicamente parlando. Incuriosito, ho chiesto lumi al portiere dell’albergo (anche il piazzale dell’Holland Hotel è decorato da opere d’arte di questa tipologia. II portiere, un afroamericano evidentemente non molto in linea con la politica militarista di Joe Biden, di fronte alla mia domanda molto candida (“Ma perché non li interrate come si fa in Europa?”) mi fa “It’s obvious! We need the money to bomb  the world”. Siamo il Paese più bello e quello più brutto del mondo, conclude. Beh, non ha tutti i torti. Spesso una cosa sono le necessità, altra le priorità.

Al Moma la parte del leone pare farla Vincent Van Gogh, con la sua “Notte stellata”. Ma non per me. Quel che mi avvince è il Jackson Pollock di “One: Number 31”. Le macchie, le strisce, le chiazze sono vibrazioni, onde che a seconda della lunghezza d’onda si fanno colore. Resto a guardare questo enorme dipinto con la bocca aperta, come un bambino davanti alla classica vetrina dei dolci. Nel frattempo tendo l’orecchio interno: cosa stanno tentando di dirmi questi scarabocchi? Perché non riesco a decifrare i segnali, santiddio?! 

In Times Square c’è la consueta sarabanda di umanità. Ci sono anche i forzati delle consegne di Amazon, ma sì, insomma, un delirio. (Su uno degli innumerevoli schermi compaiono anche i Maneskin, orgoglio italiano, e per una volta tacciano i boomers detrattori per partito preso.)

Talmente delirante il posto che decine di cartelli avvertono che questa è una “Gun free zone”. Giri l’angolo della 42esima e puoi tranquillamente riprendere a girare armato. Retaggio del vecchio West, o di un Credo neo-con.

È come se in quelle poche centinaia di metri situati tra la 42esima e la 47esima, e tra Broadway  e la 7th Avenue, una sconosciuta energia spinga le persone a liberarsi, a scatenare nello spazio circostante le cose non dette e i dissidi interiori. Chissà cosa ci facevano i nativi Lenape in quel punto preciso dell’isola di Manhattan, quali riti tribali celebravano sfidando le forze oscure del male, tentando di tenersi buone le altrettanto oscure forze del bene. E a volte faticavano a distinguere le une dalle altre.

Condividi l'articolo su:
Avatar photo

Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.