È morto a 96 anni Angelo Del Boca, il più importante storico del colonialismo italiano. È stato il primo che ha saputo abbracciare con sguardo lucido e fermezza di giudizio l’intero arco dell’imperialismo italiano in terra africana, dalla prima fase, quella di Crispi, terminata tragicamente sull’Amba Alagi e poi ad Adua, alla “riconquista della Libia”, fino all’impresa d’Etiopia in epoca fascista. È stato anche colui che per primo ha smentito l’immagine indulgente e nostalgica del colonialismo avallata da certa pubblicistica nazionale (un nome su tutti: Montanelli), dimostrando in maniera inoppugnabile i crimini commessi dall’Italia, dall’uso dei gas in Etiopia agli eccidi commessi in Libia. Partigiano, giornalista, docente di Storia contemporanea all’università di Torino, Del Boca è stato il prototipo dell’intellettuale “militante” nel senso più nobile del termine. Ha incarnato cioè l’immagine dello studioso che non si trincera nella torre eburnea dei suoi studi ma scende in campo, polemizza, si assume fino in fondo le sue responsabilità nei confronti della propria epoca, dei propri concittadini.
Il colonialismo, in Italia, rimane tuttavia ancora, per molti versi, qualcosa di sconosciuto. Non sono molti, credo, a ricordare ad esempio che non si tratta solo di un prodotto “malato” della retorica fascista, ma che ha avuto una premessa importante con l’Italia post-risorgimentale e liberale, e che i suoi primi protagonisti sono stati dei “liberatori”. Francesco Crispi, lo statista siciliano che divenne presidente del Consiglio dal 1887, principale artefice della prima stagione coloniale italiana nel Corno d’Africa, era garibaldino. Oreste Baratieri, il governatore dell’Eritrea, poi comandante delle truppe italiane sconfitte ad Adua da quelle di Menelik, nato a Condino (e morto a Vipiteno), era garibaldino. L’armatore Raffaele Rubattino, che diede inizio all’avventura italiana in Africa, aprendo una stazione commerciale nella baia di Assab, in Eritrea (quindi come privato, ma presto a lui si sostituì lo Stato italiano, secondo uno schema già utilizzato dalle altre potenze coloniali europee nella loro fase di espansione in Africa), era lo stesso che aveva messo a disposizione le navi per l’impresa dei Mille.
Si era all’indomani della fine della campagna militare contro il brigantaggio nel Meridione (quella raccontata da Giuseppe Catozzella nel suo ultimo romanzo, Italiana, ed evocata anche da Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli). L’Italia era un paese povero e disunito, ma percorso da alcuni “brividi” da grande potenza. Sul tema, le forze politiche erano divise, a destra come a sinistra: c’era chi le colonie in Africa le voleva, e chi pensava sarebbero state solo un enorme spreco di denaro pubblico. Solo una piccola minoranza le avversava perché fondamentalmente ingiuste, cioè perché avrebbero privato dei popoli della loro libertà, quella libertà che l’Italia aveva preteso per sé nel Risorgimento.
Alla fine, la giustificazione “forte” del colonialismo, quella che mise d’accordo quasi tutti, fu quella di cercare in Africa la soluzione dei problemi dell’emigrazione. Non è difficile da capire: si calcola che tra il 1846 ed il 1932 oltre 11 milioni di italiani espatriarono per mete transoceaniche. Quello dello sbocco africano per le genti in esubero della “Grande proletaria” (come la definì Pascoli), al pari di quello dell’italiano buono, più buono cioè dei colonialisti inglesi o francesi, fu ovviamente un mito; le colonie africane non rappresentarono mai per l’Italia un’alternativa reale all’emigrazione nelle Americhe, mentre il principale impiego per gli italiani espatriati era rappresentato dai posti nell’amministrazione e nell’esercito. Gli investimenti privati, invece, latitavano. L’Italia post-risorgimentale era ancora molto lontana dal raggiungere questa fase, se mai la raggiunse, fino al boom del Secondo dopoguerra. Ma all’epoca, il colonialismo ormai era praticamente terminato.
Addio, Del Boca. Ci restano i tuoi libri, a cominciare da quello più divulgativo, che dovremmo leggere tutti: “Italiani, brava gente?”.