
Ci sono storie che ti fanno perdere l’equilibrio, come certe giostre infide dei luna park di periferia. Quelle che sembrano innocue, poi girano su se stesse e d’improvviso ti ritrovi sottosopra, senza più punti di riferimento. Adolescence è così. Parte (nonostante la scena iniziale dell’irruzione) in sordina, con un’angolazione quasi documentaristica, con quei lunghi silenzi e quelle riprese fisse che ti costringono a guardare, anche quando non vorresti. Poi, senza preavviso, ti scaraventa in un baratro morale dal quale non sai più come uscire.
Il tredicenne Jamie Miller è accusato di aver ucciso un compagno di scuola. La sua famiglia, il terapeuta, un investigatore: tutti cercano disperatamente di ricostruire i fatti, di aggrapparsi a un brandello di senso. Ma la realtà si deforma, diventa sfuggente, e più la guardi, meno la capisci. È il male più spietato, quello che ricorda il Thyestes di Seneca e quindi Tito Andronico di Shakespeare: un orrore senza redenzione, senza eroi, senza nemmeno una morale che ci permetta di metabolizzarlo. Qui non c’è il gesto eclatante della tragedia, non ci sono teste mozzate su piatti d’argento o banchetti cannibali. C’è qualcosa di peggio: il dubbio che non si scioglie, il sospetto che la verità sia un inganno, la paura che il mostro non sia altro che un riflesso della nostra incapacità di comprendere.
La serie colpisce al cuore anche per quello che dice, senza dirlo, sul ruolo dei genitori. Un tempo la paura era che qualcosa accadesse ai figli. Oggi, è quello che potrebbero fare a terrorizzarci. La distanza che separa un bambino da un assassino diventa mostruosamente labile, e ci si ritrova a fissare quel volto in cerca di un indizio, di una smorfia, di una crepa nel suo silenzio. (“Su, dillo Jamie! Dillo che non sei stato tu! Sono qui che ti ascolto, assieme a tutti i genitori del mondo. Dai, dillo e poi ce ne torniamo tutti al nostro scenario di cartapesta, alle nostre fragili certezze”).
E poi c’è lo stile registico unico. Quelle sequenze dilatate, immobili, che sembrano trattenere il respiro. Il tempo si spezza, la vita continua fuori campo, ma dentro l’inquadratura tutto è sospeso. I genitori di Jamie sembrano naufraghi, approdati su un’isola sconosciuta, braccati da bestie invisibili. La giustizia? Un miraggio. La verità? Un’illusione.
Alla fine, quando il sipario cala, non rimane nulla. Solo la sensazione di aver visto qualcosa di irrimediabile. E la certezza che, per quanto ci sforziamo di cercarlo, un senso non lo troveremo mai. Né nella finzione né nella realtà.