“Gli uomini devoti sono come stranieri in questo mondo, mentre si sentono a casa nel mondo a venire” ci ricorda Filone. In attesa della Resurrezione e del Giudizio Universale, i corpi sottoterra dormono. Gli ebrei li chiamano “quelli che dormono nel paese della polvere”, mentre per i babilonesi le tombe erano “case dell’eternità”. Perché la morte, all’interno di una concezione ciclica del tempo, è la prosecuzione della vita. Solitamente sono seppelliti uno accanto all’altro, formando quella che viene chiamata la “città dei morti”, e sono orientati con i piedi ad occidente (là dove tramonta il sole, là dove la morte apre le sue porte) e la testa poggiata ad est (là dove nascono il sole e la speranza, dove è collocato l’agognato Paradiso perduto). Ma non in tutti i cimiteri si segue questa consuetudine. C’è un cimitero che è speciale: quello di Villandro, sulle balze boscose e prative dei Sarentini orientali. Lì i morti, invece che appoggiare il capo alla croce, la toccano con i piedi. Sembrerebbe un’eresia ma la motivazione di questo orientamento è molto semplice: contadini, boscaioli e pastori lì seppelliti vogliono, ancor oggi dopo secoli, guardare il sole che sorge e sorridergli, voltando le spalle all’ovest e alla morte. Uno squarcio di allegria in un mondo tenebroso, frequentato da anime perse e anime purganti, anime agitate. Per questo le città dei morti, un tempo, erano vicine alle chiese, rivolte verso mezzogiorno, scaldate dal sole in un luogo altrimenti gelido e silenzioso.
Per questo erano recintate: le anime dei morti dovevano rimanere dentro, le anime dei vivi stare fuori. La confusione poteva portare ad incidenti non sempre piacevoli. In val di Fassa si ha paura del “doppio”, il morto che ritorna, la mòrt che grigna, tanto assomigliante al nitrito di un cavallo. In val dei Mocheni è facile sentire, nella notte, lamenti, movimenti di rami spezzati e pianti: si chiamano anmelden, i “segnai”. Viandanti che vedono apparire una bara, o gente che prega attorno ad essa, sono tutti segnali che qualcosa sta accadendo. Se non sono gli uomini, sono gli animali che avvisano che qualche anima sta pellegrinando nella terra dei vivi, magari per mettere in guardia i propri cari da qualche minaccia: in Val di Fassa il rumore martellante del tarlo viene chiamato marteléc, un rumore che preannunciava l’arrivo della Nera Signora. In alcuni villaggi delle valli di Pusteria e d’Isarco, si usa ancora dire Klopft der Holzwurm im Wandgetäfel so stirbt man jemand. Das Klopfen heisst man die Toatenûre (se il tarlo del legno batte sulle assi delle pareti significa che qualcuno morirà). In val Badia le anime inquiete, les püres animes, quelle che avevano bisogno delle preghiere dei viventi per uscire dal purgatorio o per aver alleggerite le pene dell’inferno, si manifestano solitamente sotto forma di luci (lum, löm, lüm, a Longiarù chiamate anche löti). Questo terrore delle anime errabonde iniziava già sul letto di morte. Attorno al letto funebre avveniva una contesa furibonda tra gli angeli e il diavolo per impossessarsi dell’anima. Le preghiere e le veglie al capezzale servivano ad accompagnare il morto a districarsi in questa battaglia. Nell’Oltradige si poneva sul petto del defunto una candela piegata a forma di crocifisso, ennesimo segno apotropaico. Le veglie funebri potevano durare anche due giorni e la sera, in casa del defunto, la comunità recitava i 15 misteri del Santo Rosario, le litanie.
Un tempo questo momento era circostanza appetitosa per creature ostili come le strige, che non avrebbero esitato a introdursi in casa per saccheggiare il cadavere. Quando uno moriva, la prima notte si apriva la finestra, affinché l’anima uscisse; bisognava poi essere veloci a richiuderla perché non ritornasse. Soltanto il giorno dei morti si permetteva una fugace apparizione al desco familiare: si preparava la tavola anche per lo scomparso e quando si andava a dormire si lasciava il piatto pieno. I walser della Valfurva, nelle loro costruzioni a metà strada tra legno e pietra, ricavavano una piccola finestra, scavata nella trave in direzione dell’oriente – detto l’uscèt da li ànima –, mentre a Livigno questo finestrino è costituito da uno spioncino con anta scorrevole sistemato a fianco della porta d’ingresso ad altezza d’uomo. Le origini di queste aperture si ritrovano nelle tombe greche (nell’Odissea il sangue svolge tale funzione per le anime vampiro) e romane (le libagioni/offerte di latte, vino, acqua, miele, ecc.); un’anticipazione di questi fori la troviamo nelle Seelenloch, i buchi dell’anima (Gratsch, chiesa di S. Pietro). Per i Cimbri l’anima si trasformava in farfalla chiamata tutra, in realtà una vampira.
Per tutto questo il rito della morte, terminante al cimitero, doveva seguire pratiche consolidate. Altrimenti erano guai. ■
Un angelo da ammirare
Uno splendido angelo, di virginale quanto esangue marmo bianco, sta per spiccare il volo. Abbandona la terra per il cielo, trascinando dietro di sé l’anima di un morto. La figura alata, chiamata La transumanazione, fuoriesce dalla lastra verticale nelle sue forme sinuose e aggraziate. L’opera, dello scultore Ermete Bonapace (Mezzolombardo, 1887-1943), asseconda pienamente i canoni simbolisti, come fortemente simbolista è il suo bassorilievo in bronzo raffigurante Gesù che veglia un morto, eseguito in memoria di Vittorio Bonapace. Suo è anche il monumento dedicato ai caduti della I guerra mondiale dove spicca un maestoso altare in pietra rosa, sovrastato da quattro colonne in marmo, recante un’enorme urna. Queste sono soltanto alcune delle opere artistiche di grande pregio che incontriamo nel cimitero di San Pietro a Mezzolombardo. Pitture, sculture e graffiti si alternano, eseguiti da mani valenti al confine tra artigianato e vera e propria arte. Il cimitero come luogo dell’arte.
Il luogo dell’anima e degli affetti
Una società nella quale la morte era percepita come humus della vita, la gente non pensa al momento del trapasso dalla vita alla morte se non quando quel momento arriva, e allora lo accoglie con arrendevolezza alla stregua di una legge di natura a cui tutti sono da sempre rassegnati. La docile accettazione di un evento inevitabile si è per lungo tempo accompagnata alla credenza nella sopravvivenza del doppio, ossia degli spiriti dei trapassati, testimoniato in molte storie e leggende. I nostri avi, come quelli di altre civiltà, non potevano capacitarsi della brusca scomparsa di coloro con cui avevano convissuto, e quindi credevano agli spiriti dei morti, ad una presenza dei defunti accanto a sé che durava un certo lasso di tempo. Questi doppi si aggiravano di notte e guai lasciare la biancheria stesa perché se questi la sfioravano diventava floscia e bisognava rilavarla.
In questa unità i morti e i vivi coesistevano nei ricordi, nella memoria domestica, nei sogni e in molte storie soprannaturali, soprattutto legate ai luoghi di confine tra noto e sconosciuto, tra sacro e profano. Come la Mòrrigan gaelica che si rivela sempre in un luogo di confine, in un tempo di passaggio, tra la luce del giorno e il buio della notte. Nelle antiche storie e nel folklore gaelico gli esseri dell’oltremondo entrano in contatto con gli umani in situazioni liminari, come attraverso fratture sulla superficie della realtà mondana. Così per le genti alpine, molte volte isolate, a diretto contatto con la natura, il rapporto con la cultura della morte era stretto e quotidiano. Prima che il cimitero diventasse un luogo di monito ai vivi e abitato dagli spiriti e dalle anime perdute che appaiono sotto forma di fiammelle – le “fuc voladi” badiote –, era luogo d’incontro, di festa, punto di vendita delle derrate alimentari. Il ballo di san Vito è anch’esso una conseguenza dei balli nei cimiteri, poiché san Vito, avendo visto dei cristiani ballare in un cimitero, li aveva maledetti, condannandoli a ballare senza mai fermarsi. In val dei Mocheni si usava piantare nei cimiteri il ginepro perché si riteneva che potesse aiutare a riportare sulla terra le anime dei morti. Il cimitero rimane il luogo dell’anima e degli affetti, lì ci si reca per ricordare, almeno una volta all’anno, i nostri morti, arredando e decorando le cappelle funerarie, le edicole funebri e le lapidi, utilizzando una simbologia antica e legata all’eternità. Ad esempio la pigna, assieme al fiore del papavero e ai granati, è simbolo d’immortalità, assai frequente nell’arte funeraria. La decorazione e l’ornamentazione delle tombe con i fiori deriva dall’antico uso romano delle rosalia – festa dedicata ai defunti e legata alla stagionalità della fioritura delle rose –, passato dal culto dei morti a quello dell’imperatore e poi acquisito dai cristiani per celebrare i loro martiri. Ma i morti non sono tutti uguali: la ricchezza di alcune tombe, o le tombe familiari, ne sono una muta testimonianza. Già sant’Agostino denunciava questa disuguaglianza scrivendo che se i cristiani volevano assicurare la salvezza dell’anima ai loro congiunti defunti dovevano preoccuparsi non della pompa dei funerali e della solennità delle sepolture, ma di non far mancare loro le preghiere. Il recinto cimiteriale era elemento di divisione netta tra la città dei vivi e quella dei morti. A Stelvio, durante la manifestazione dei Klosen, il 5 dicembre, vigilia di S. Nicolò, gli spettatori trovano salvamento al di là del cancello del cimitero, spazio sacro che i diavoli devono rispettare. Si tratta della reminiscenza di un radicato uso medioevale.