All’incrocio dei sensi di colpa

La guerra del Vietnam, benché sia stata una delle più discusse e controverse della seconda metà del Novecento, sta lentamente scivolando via dalla memoria. Eppure quel conflitto, che fu soprattutto uno scontro tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America, contribuì a ridefinire gli equilibri geopolitici dell’epoca. Nulla di nuovo sotto il sole. 

Quella guerra fu importante anche perché alimentò in America e in Europa un vastissimo e variegato movimento pacifista che si fuse e confuse con i movimenti del Sessantotto e assunse presto connotazioni ideologiche: da un lato c’era il capitalismo a trazione americana, dall’altro il comunismo, comunque lo si intendesse. E bisognava scegliere da che parte stare.

Che c’entra il Vietnam con Crossroads? A prima vista poco o nulla. Ma il fatto che, oltre il più lontano orizzonte di quanto vi si narra, migliaia di soldati americani andassero a morire nella paludosa giungla indocinese (i caduti americani furono sessantamila) rappresenta un elemento non secondario per dare un senso compiuto al romanzo di Jonathan Franzen. 

Gli anni in cui prendono vita i molti personaggi di Crossroads sono quelli a cavallo tra le amministrazioni Johnson e Nixon, cioè tra il 1969 e il 1971. L’ambiente è quello della middle class, un po’ gretta e ingenua, del Mid West. E Crossroads è il nome di un gruppo parrocchiale formatosi in seno alla First Reformed, una delle tante chiese riformate americane, nell’insignificante cittadina di New Prospect, non lontana da Chicago. La missione di Crossroads è offrire l’opportunità a giovani capelloni in pantaloni a zampa di elefante, salopette e bandana, di crescere in una comunità in cui non ci sia posto per la menzogna, la reciproca ostilità, le barriere interpersonali; in cui regni la trasparenza, l’armonia, il benessere interiore, l’altruismo, i baci e gli abbracci: in cui, insomma, aleggi lo spirito cristiano. Forse anche lo Spirito Santo, per quanto in versione vagamente new age. Con il carisma che gli viene dalla sua apertura mentale e dalla sua modernità, e forse anche dai suoi baffi alla Fu Manchu, il giovane pastore Rick Ambrose è l’indiscussa e amatissima guida del gruppo, pronto ad escluderne senza appello chiunque attenti alla sua posizione dominante. 

Crossroads richiama inevitabilmente “Cross Road Blues”, un brano inciso negli anni Trenta dal grande bluesman americano Robert Johnson, brano che non casualmente viene citato già nelle prime pagine. Non è facile capire che cosa metta in relazione quella canzone con quanto si racconta in Crossroads: forse il fatto che il reverendo Russ Hildebrand, uno dei personaggi centrali del racconto, possieda una preziosa collezione di dischi di blues, tra i quali un’incisione originale del pezzo di Johnson. O forse che in quella canzone si parli di una sorta di smarrimento. O che si parli di anima. O che si chieda al Signore di avere pietà. O che si parli, per l’appunto, di incroci. Perché Crossroads è una storia in cui si incrociano molte e complesse vicende: quelle dei centoventi membri del gruppo parrocchiale; quelle del difficile rapporto tra Russ Hildebrand, il pastore più anziano, e Rick Ambrose, il suo giovane collega; quelle della grottesca relazione clandestina tra Russ e la sua frivola parrocchiana Frances Cottrell. E soprattutto quelle dei membri della travagliata famiglia di Russ, composta dalla sua apparentemente succube moglie Marion e dai quattro figli: Clem, Becky, Perry e il piccolo Jay.

Il progetto edenico del pastore Rick Ambrose non è per altro privo di rischi. In Crossroads, infatti, si annida il Serpente. Il quale, come ben si sa, può assumere diverse sembianze. In primo luogo quelle dell’invidia e della gelosia generate dalla competizione tra quegli adolescenti impegnati a conquistare le simpatie del capo e a scalare le gerarchie interne del gruppo. Poi, immancabilmente, quella del consumo di sostanze proibite, in particolare della marijuana, severamente bandita da Crossroads, ma dalla quale parecchi membri del gruppo sembrano irresistibilmente attratti. E questo implica sotterfugi, nascondimenti, bugie e quant’altro. Infine, e soprattutto, l’impulso biologico primario, cioè il desiderio sessuale. 

Molti altri temi si incrociano nel romanzo. Ad esempio, l’ottusità delle iniziative filantropiche della parrocchia rivolte agli afroamericani poveri che vivono alla periferia della città. O l’ingenua presunzione che segna la spedizione che i membri di Crossroads intraprendono ogni anno per fare del volontariato in una riserva Navajo in Arizona: intervento, per nulla gradito in quella comunità così lontana, che vede in quella presenza estranea nient’altro che una forma di paternalismo e, in definitivo, di sfruttamento. O lo scontro generazionale che rende assai problematica la comunicazione tra Russ e i giovani del gruppo, e assume toni drammatici nel confronto tra il maturo Russ e il giovane Rick. O il destino di Perry, il figlio più bello, intelligente e brillante, che finisce con l’assumere il ruolo di angelo caduto.

 Tutte queste linee narrative si intrecciano in una ben congegnata struttura, in cui nulla è superfluo e nulla è trascurato. Anche la lunga digressione sugli inconfessabili e turbolenti trascorsi giovanili di Marion, la moglie del reverendo Russ, assume una sua funzione essenziale. La leggerezza, a tratti sottilmente urticante, della narrazione di Franzen, pervasa da un oscuro e sottile umorismo (che si mostra bene in alcuni passi, come in quello, ad esempio, in cui entra in campo l’ambiguo manager Benedetti, il cui cinico realismo imprenditoriale e la cui franchezza finiscono con il renderlo simpatico), conduce il lettore nei meandri mentali dei personaggi, nel loro arrovellarsi e contraddirsi, nei loro pensieri e retropensieri, nella loro insistente e vana ricerca di serenità. Il bersaglio polemico dell’autore è la vacuità di un certo modello di vita. L’architettura del racconto si fonda sull’eterna opposizione tra realtà e illusione, che è poi la falsa coscienza e l’alienazione. Ciò che emerge alla fine, è l’insopportabile peso del senso di colpa e il bisogno di liberarsene attraverso confessioni devastanti, nelle quali si cerca almeno un po’ di verità.

E dunque, che cosa c’entra il Vietnam? C’entra per via di Sharon, personaggio apparentemente secondario. Clem la incontra al primo anno del college e lei diventa la sua ragazza. Sharon è intelligente, colta e indipendente, e non si lascia per nulla condizionare dal mainstream del campus universitario. Grazie a lei Clem viene iniziato a pratiche erotiche delle quali lui neppure sospettava la possibilità. Ma ciò che sconvolge veramente il bravo ragazzo di New Prospect, sono le convinzioni della ragazza circa la guerra del Vietnam. Qui, probabilmente, si mostra il punto più problematico dell’intero romanzo. Attraverso il personaggio di Sharon, Franzen tenta di demolire quello che si può considerare il pilastro morale più solido e condivisibile di Crossroads, cioè il pacifismo. Che il ragionamento della ragazza sia più o meno valido, ogni lettore potrà giudicare. Resta il fatto che per Clem rappresenta una rivelazione che lo spingerà a scelte radicali.

Può Franzen essere accusato per questo di una sorta di nichilismo? Forse sì, forse no. In ogni caso, il suo intento è quello di smascherare l’ipocrisia di chi può stare dalla parte giusta solo perché è un privilegiato, di denunciare gli inganni ideologici e il meschino conformismo di una certa America. E tutto questo, benché si narri una vicenda di cinquant’anni fa, conferisce al romanzo un’indiscutibile attualità.

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Pubblicato da Valentino Corona

Valentino Corona vive a Trento. Laurea in filosofia, master in glottodidattica. Ha insegnato nelle scuole superiori in Italia, Svizzera e Germania. È stato Lettore di italiano all’Università Comenio di Bratislava (Repubblica Slovacca) e all’Università “J. Dobrila” di Pola (Croazia). Ha pubblicato la raccolta di poesie Sola verità del cuore è la memoria (2012), il diario del Cammino di Santiago Meglio non chiedere. Volevo andare da solo a Santiago (2014) e il romanzo-saggio Blues siberiano (2017).