
Luciano De Crescenzo nel suo “Storia della filosofia greca” inserisce, accanto ai grandi e riconosciuti filosofi ellenici come Socrate, Aristotele ed Epicuro anche delle persone normali, che lui definisce “filosofi miei”, cioè persone che nella sua vita hanno portato dei pensieri e dei ragionamenti che lo hanno ispirato. Uno di loro è Peppino Russo. Don Peppino era di Napoli ma viveva a Roma in una casetta di periferia ed aveva addobbato gli alberi della strada con bambole e giocattoli vecchi. Quando De Crescenzo gli chiede come mai, lui risponde: “quando escono dalle fabbriche i giocattoli sono solo dei semplici oggetti senza nessuna individualità. Come però un bambino comincia ad amarli, ecco che dei pezzetti dell’anima di colui che ama si vanno a ficcare all’interno della plastica e la trasformano in materia viva. A questo punto non è più possibile buttarli via, anche se nel frattempo si sono rotti e ammaccati. Ed è per questo che io li vado raccogliendo un po’ dappertutto e li faccio continuare a vivere sugli alberi, in mezzo ai fiori, al sole e alla pioggia.” De Crescenzo a questo punto gli chiede se allora la stessa cosa accade per qualsiasi altro tipo di oggetto e Peppino Russo risponde: “È logico. L’importante è avere chiaro nella mente che cosa significa per noi vita e che cosa significa morte”, per poi approfondire il discorso raccontando un fatto che era successo quando era morto suo padre. “Avevo sempre pensato che il giorno della sua morte avrei fatto, come diciamo noi a Napoli, cose ’e pazze, che sarei rimasto distrutto dal dolore. Ebbene non ci crederete: quando tutto questo è veramente accaduto io non ho provato alcuna emozione, diciamo che non sono riuscito nemmeno a farmi venire le lacrime. Stavo lì impalato, senza dire niente, e nel frattempo cercavo dentro di me delle giustificazioni. Mi dicevo: non piango perché sono intontito, non piango perché non riesco a pensare. Nossignore, la spiegazione del mio comportamento era molto più elementare: io mi rifiutavo di riconoscere il cadavere! Quella sagoma lì, stesa sul letto funebre, era solo una cosa, chiaramente priva di anima, che non aveva nulla a che vedere con mio padre.” Poi però Peppino racconta che quando il giorno dopo entrò nella camera che era stata del padre e vide alcuni dei suoi oggetti, venne preso dalla commozione e finalmente riuscì a piangere. “Ecco dove si era nascosto mio padre” dice Russo mostrando a De Crescenzo gli occhiali da vista del genitore, il suo orologio da ferroviere con il vetro incrinato, l’agendina telefonica, la pipa, un fermacarte di marmo raffigurante un leone. Il racconto che fa De Crescenzo riportando le parole del “suo filosofo” Peppino Russo mi ha colpito molto. Ho perso mio papà poco prima di compiere tredici anni e purtroppo la sua scomparsa prematura ha fissato nella mia memoria molti meno ricordi di quelli che vorrei avere di lui. Però ci sono due cose che gli sono appartenute che mi fanno sentire la sua presenza. Il suo orologio che ora è sempre al mio polso e la Vespa azzurra con la quale nel 1976 andammo al cinema di Levico Terme dove guardammo insieme “Il corsaro nero” con Kabir Bedi. Ecco, io non so se gli orologi e le moto abbiano un’anima ma so che ogni volta che guardo che ore sono o che monto in sella alla Vespa mi ricordo di lui ed è come se mio papà in quel momento fosse lì con me.