Canzoni e impegno: cosa resta della spinta rivoluzionaria?

È finito il Festival di Sanremo, che si conferma l’ultimo rito collettivo italiano. Nel bene e nel male. In un tempo in cui la domenica sportiva è morta del tutto e in cui di fatto la televisione non attrae quasi più simultaneamente un pubblico vario, rimane solo il Festival.

Per evitare la morte anche di quest’ultimo baluardo, Amadeus negli ultimi quattro anni ha fatto di tutto per rendere l’evento il più aderente possibile ai diversi gusti del Paese. Ha provato, e ci è riuscito, ad accogliere tutto e tutti, proprio per renderlo transgenerazionale. Facendo due conti sui concorrenti e sugli ospiti, si fa prima a dire i cantanti che non c’erano, in questa edizione, che quelli che c’erano. Un baraccone impressionante.

Più gente si invita, ovviamente, più è facile che il risultato sia grottesco, perché vedere in successione un Mattarella che applaude a Benigni, un rapper, una terrificante reunion anni Novanta e un monologo femminista imbarazzante non è proprio uno spettacolo alto. Di sicuro però attira tutti.

L’intuizione migliore di Amadeus è stata quella di far salire sul carro le nuove istanze “musicali” senza per questo mettere in soffitta i senatori intoccabili, da Gino Paoli ad Albano. Il risultato, appunto, talvolta è stato grottesco, ma questa ne è l’epoca, su tutti i livelli, e quindi lo spettatore è contento perché si sente a casa.

Il dubbio da porsi, constatate tali scelte, è questo: fino a pochi anni fa esisteva la musica leggera sanremese e quella che a essa si opponeva, perché più impegnata. De Gregori e Guccini non hanno mai messo piede al Festival, tanto per dire, perché condividevano il disinteresse per una competizione tra sentimenti. Anche a Fabri Fibra, massimo esponente della controcultura rap, non penso sia mai passato per la testa di andarci, né a Pippo Baudo o a Carlo Conti di invitarlo, e sembrava normale. Perché invece oggi i vari Maneskin, Lazza, Salmo e tutti gli altri rappresentanti di generi tendenzialmente “ribelli”, o comunque non nazional-popolari, non si fanno problemi a lanciarsi in pasto a Rai 1? Da un lato, ne scrivevo qui due mesi fa, il rap ormai è il nuovo pop, e quindi si è avvicinato a quel tipo di espressione, e questo vale anche per un certo rock. Anche gli stessi giovani artisti, meno impegnati di un tempo, perdono facilmente la spinta rivoluzionaria di fronte al fascino della fama nazionale, proprio perché più vicini idealisticamente al pop. La domanda però rimane: sono questi generi che vogliono prendersi Sanremo, o Sanremo che è riuscito abilmente ad attrarre loro? 

Opterei per la seconda. Questa abilissima operazione, graduale ma inesorabile, finisce per togliere a generi culturalmente più fertili il desiderio di opporsi al potere istituzionale. Invece che lasciarli fuori, potenzialmente eversivi, si è scelto di abbracciarli, tramutandoli in un attimo in musica con trasgressione ed eversione formato famiglia. E quindi viva i Maneskin che spaccano le chitarre sul palco (all’estero) ma non bevono e non si drogano, viva Lazza che ha i tatuaggi in faccia però saluta sempre con gentilezza e porta i fiori alla madre in platea, viva Fedez che si oppone ai politici e ai potenti ma è un buon padre di famiglia milionario. Sono bravi ragazzi, e vogliamo loro bene. Anzi, davanti alla tv che accoglie gli artisti dei nonni, dei padri e dei figli, ci vogliamo tutti bene.

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Pubblicato da Alessandro Zanoner

Nato a Trento nel 1993, insegnante di italiano, latino e storia nelle scuole superiori. Suonatore di strada con umili tentativi da cantautore e scrittore. Mi piacciono la montagne e il Mar Tirreno; viaggio con una buona frequenza, soprattutto in centro Italia. Un pomeriggio a Roma una volta all'anno, minimo. Pavese, Moravia ed Hermann Hesse i miei autori preferiti in narrativa. Per la musica De Gregori, Vinicio Capossela, Lucio Battisti e Giovanni Lindo Ferretti.