Cesare Pavese e la realtà del mito

Le storie rivelano cose che non è facile cogliere ricorrendo alle discipline scientifiche (Wendy Doniger).

Correva l’anno 1973 e su consiglio del mio insegnante d’italiano – indimenticabili i suoi insegnamenti che, come quelli di Florenskij, aprivano le “porte regali” della cultura – mi tuffai nella lettura dei libri di Cesare Pavese. Lo scrittore era il “neorealista” per eccellenza, colui che traeva dalla terra il senso (o il non senso) della vita. Ma c’era un libro di cui non avevo compreso la portata: I dialoghi con Leucò, ovvero mito, mitologia, dialoghi tra l’alto e il basso, speranze e delusioni per incantamenti e innamoramenti, erranze per l’Ade e silenzi diluviani e, dietro l’angolo, la morte. 

Al tempo si leggevano opere come Sud e Magia, Morte e pianto rituale nel mondo antico e quel capolavoro de La terra del rimorso di Ernesto De Martino (per l’affascinante indagine sui “tarantolati”) ma era difficile inoltrarsi nel variegato mondo della mitologia, molto snobbato perché ritenuto non utile per la utopica costruzione del socialismo. Quanti errori si compiono in gioventù, quante strade ci si preclude per l’arroganza giovanile di vedere soltanto il bianco e il nero o, al tempo, il bianco e il rosso (il nero era disdicevole). In questi giorni ho finito di rileggere I dialoghi con Leucò, ripubblicati da Adelphi con un’introduzione di Giulio Guidorizzi (grecista, la cui scrittura è già di per sé un mito e la lettura dei suoi testi un rito), passepartout per aprire il mondo di ieri proiettandolo su quello di oggi, e con una conversazione tra Carlo Ginzburg e Giulia Boringhieri.

Dalla lettura emerge un Pavese “altro” o, forse, morfologicamente formato da tante sfaccettature, come gli occhi di una mosca, tanti prismi in ognuno del quale nascono e muoiono le idee, alcune delle quali persistono per tutta la vita, segretamente, intimamente, altre si disperdono, altre ancora vengono gridate per poi essere scordate. Emerge un Pavese che avevo dimenticato e di cui oggi si riconoscono la grandezza, l’acutezza nel saper esprimere in questi dialoghi mitologici il senso della vita e della morte (soprattutto della morte), la grande capacità di saper ricollegare il passato con il presente rendendo il primo vivo e reale e la capacità di spolverare via le incrostazioni dai fili che legano il basso con l’alto, esplicitandoli e rendendoli finalmente, visibili. Guidorizzi scrive che «il mito impone un risveglio dell’immaginazione e anche un continuo, eterno ritorno a un’origine da cui non ci si potrà liberare». Pavese, nella prefazione, definisce il mito «un vivaio di simboli».

Con questo ritorniamo alle Muse e al loro offrirsi come specchio chiarificatore ad Esiodo, insegnandogli che, sussurra Mnemòsine, «per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più». Il tempo, finalmente liberato dalla sua fredda continuità cronologica, si erge in tutto il suo potere ammaliante di frammento, di goccia d’acqua, di granello di sabbia che racchiude il mondo, come poeta William Blake. In ogni cosa c’è un’anima, un cuore che batte: lo aveva ben compreso lo shintoismo (cioè la via degli dei), che ha gettato di questa concezione quei semi che a distanza di migliaia di chilometri il politeismo greco e romano ha fatto germogliare e coltivato. In ogni frammento ci sono vita e morte, anzi, come scrive Pavese, la vita è condotta soltanto per incontrare la morte, come una partita a scacchi da Settimo sigillo.

È un libro da tenere sul comodino, sfogliandolo ogni qualvolta i fili che legano il microcosmo con il macrocosmo sbiadiscono perché, come dice Prometeo ad Eracle, «ricordati sempre che i mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che t’incutono. Così è degli dèi. Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno». Fortunatamente degli dèi che mi insegnano quotidianamente a leggere il mondo, a capire il territorio e ad interpretare le opere artistiche, io ho un terrore sacro, perché se la lingua può solo interpretare, il simbolo desta presagi e ti fa camminare in luoghi e territori che non sempre vorresti frequentare. 

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Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com