Per fortuna se ne parla sempre di più. Negli ultimi anni diversi intellettuali si sono posti il problema dell’utilità dell’esame di stato, criticando soprattutto le attuali modalità. Anche Claudio Giunta, professore dell’Università di Trento che abbiamo intervistato su questo giornale tempo fa, si è espresso su questa questione (citandolo: un esame in cui passano il 99,7% degli studenti non è un esame). Rimando volentieri ai suoi articoli, più approfonditi di questo. I limiti dell’attuale sistema sono tanti, e ci vorrebbe più spazio per affrontarli tutti. Il punto centrale è probabilmente il ruolo della maturità, che è cambiato nei decenni. L’esame fu concepito come l’effettiva fine degli studi per la maggior parte degli studenti. Evidentemente questo non è più vero, considerando che per molte carriere persino la laura triennale serve a poco (è mia opinione che la triennale in molti ambiti è la nuova maturità, anche per il livello non proprio eccelso proposto in tanti corsi di laurea). Se qualcuno va a lavorare dopo le superiori, spesso è perché ha frequentato un istituto tecnico o professionale, per i quali è fondamentale soprattutto che sia valutata con cura la parte tecnico-pratica dell’esame. Per i licei, invece? È davvero la fine di un percorso, o è solo un passaggio obbligato, carico però di una retorica non più giustificata?
Più passano gli anni, tra l’altro, più aumenta il numero degli studenti che affronta l’esame essendo già immatricolato all’università. Il test di medicina, nuovo simbolo di status sociale, ora si può affrontare già in quarta superiore. Con che spirito uno studente vedrà la maturità se sa già che da settembre inizierà un percorso diverso, per il quale il voto finale dell’esame non conta nulla?
L’unico punto che sembrerebbe essere ancora sensato per tenere in piedi questa istituzione è questo: l’esame di maturità abitua gli alunni a una prova seria, la prima della loro vita di studenti, e quindi li accompagna verso gli esami universitari. C’è però da capire se questo “allenamento” sia così necessario, visto anche il numero di discipline che si è costretti a preparare in poco tempo e per prove così particolari (la prima prova di italiano è a dir poco anacronistica, per fare un esempio). Quali soluzioni, dunque? Forse sarebbe sensato accompagnare gli studenti nella produzione di un testo decente, anche solo di 15 pagine, su un argomento da loro scelto con gli insegnanti (non multidisciplinare, per carità, e non un Power Point), per prepararli con metodo a un lavoro simile a una tesi o ai papers tanto richiesti nelle altre università europee. In questo senso il voto finale potrebbe essere dato semplicemente dalla somma del voto del lavoro prodotto con la media delle valutazione del triennio. Si potrebbe pensare, per essere un po’ più seri sui programmi di quinta, di promuovere solo studenti con un’insufficienza, e non di più. È possibile sicuramente trovare un compromesso che permetta agli alunni di vivere l’ultimo anno del percorso senza questa costante angoscia dell’esame finale, che nella maggior parte dei casi toglie agli studenti il gusto di studiare le materie più amate, proprio nel momento in cui i programmi sono più interessanti e ci sarebbe spazio per un dialogo intellettuale più proficuo con gli insegnanti. E invece avanti così: “occhio ragazzi, che quest’anno avete la maturità…”.