
Parigi, 1965. L’Ile Saint-Louis si apre come un sipario su un teatro in miniatura dove le forze eterne dell’amore, della fede e della conoscenza si sfiorano, si ignorano, si giudicano. Lo scatto di Édouard Boubat non ha bisogno di voce: è già un sussurro che riecheggia per chi sa ascoltare.
Gli amanti si baciano con quella fame incosciente e dolce che ha il sapore dei vent’anni. Ma non sono soli. Alle loro spalle, una suora li osserva e, distogliendo lo sguardo, ci dice tutto: è lo sguardo della morale, della colpa, del dogma. È breve, ma pesa.
In primo piano, un giovane legge, assorto, quasi arrogante nel suo isolamento. Sembra dire: “Io so.” Ma l’amore – quello che accade dietro di lui – lo ignora, o forse lo infastidisce. Non legge l’amore. Non legge la fede. Legge se stesso.
Boubat dipinge un mondo sospeso tra ciò che è terreno e ciò che è eterno, tra l’impulso e la regola, tra la carne e l’astrazione. In quell’istante rubato, c’è la città, certo, ma anche l’uomo, nella sua nudità interiore. Così come Joan Didion ci raccontava l’America attraverso i suoi dettagli più minuti, Boubat fa lo stesso con Parigi: ci mostra l’anima attraverso un bacio, uno sguardo storto, e un libro aperto.
E forse siamo tutti e tre, in fondo: chi ama, chi giudica, chi osserva da lontano fingendo di sapere.
E Parigi, come sempre, resta lì: complice, indifferente, bellissima.
Una scenografia fissa per attori che cambiano volto, ma non copione.