Chico, Lara e gli altri. Il “rischio” di essere italiani all’estero

Il destino di Lara, di Patrick Zaki e di Enrico “Chico” Forti hanno qualcosa in comune, ma per quest’ultimo – dopo che il 23 dicembre il ministro Luigi Di Maio ne aveva annunciato il trasferimento in Italia – la caduta del Conte bis avrebbe potuto avere conseguenze disastrose. Per fortuna il dicastero degli Esteri è rimasto al pentastellato. Tuttavia nulla si muove ancora all’orizzonte. Nel frattempo ripercorriamo tutta la kafkiana vicenda e, grazie alla collaborazione di Gianni Forti, diamo gli ultimissimi aggiornamenti.

Italiani all’estero. Non sempre ben visti, anzi. A cominciare dalle nostre squadre di calcio. Mai fatto caso a come gli arbitraggi siano sempre a nostro sfavore quando ci confrontiamo sui campi europei o mondiali? Le peripezie dell’arbitro Moreno, 16 giugno del 2002, sono state solo la punta dell’iceberg.

Ma veniamo a qualcosa di un po’ più tragico del calcio. Secondo un dossier della Farnesina, del 2019, sono ben 2.113 gli italiani reclusi nelle carceri del mondo. Solo nei Paesi dell’Unione europea sono 1611 dei quali solo 8 sono in attesa di trasferimento. Mentre 120 sono quelli reclusi nei Paesi extraeuropei dei quali solo 3 sono in attesa di trasferimento. Per quanto riguarda le Americhe, sono ben 250 e spicca il Perù con 40 detenuti italiani, seguito dall’Argentina con 36 e 30 in Brasile. Ma ci sono reclusi italiani anche nei paesi del Medio Oriente e africani, tra i quali spicca il Marocco con 11 e 9 negli Emirati Arabi. Particolare abbastanza sconvolgente: più della metà sono in attesa di giudizio, pochissimi quelli in attesa di trasferimento, condizione che dovrebbe essere garantita dalla Convenzione di Strasburgo del 1983 e da diversi accordi bilaterali nei casi che riguardano le persone già condannate. Equo processo? Nemmeno a parlarne in moltissimi di questi casi. In alcuni Paesi non è garantita nemmeno l’assistenza di un avvocato, non è presente un interprete durante gli interrogatori.

L’ultimo caso, abbastanza paradigmatico, riguarda Lara, 30enne, italiana e alla fine del 2015 si trasferisce alle Canarie, nell’isola Lanzarote. Una sera del 2016 esce da un locale col fidanzato e tornando a casa in auto provocano un incidente stradale in cui muoiono due pedoni. Lara si assume la responsabilità che l’ha portata in un vortice dalla quale vorrebbe e deve uscire. Dopo oltre tre anni è ancora bloccata lì, senza documenti e senza la possibilità di lavorare, senza cure mediche, con problemi economici.

Ma perché glli italiani vanno all’estero? Generalmente per quattro motivi, principali. Per lavoro, turismo, studio o per impegni umanitari. Della prima categoria potremmo citare il calvario di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri di marina italiani accusati di aver ucciso il 15 febbraio 2012, al largo della costa del Kerala, stato dell’India sud occidentale, due pescatori imbarcati su un peschereccio indiano. Sappiamo come è andata a finire. Proprio questo mese i due militari dovrebbero riprendersi i propri diritti civili, ma con quali conseguenze? Nella terza (tacendo per pietà di Giulio Regeni), il caso di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna in carcere da oramai più di un anno proprio in Egitto. Nella quarta, il misconosciuto caso di Mario Paciolla, il volontario dell’Onu trovato morto in Colombia nel luglio del 2020: si sarebbe suicidato secondo le autorità colombiane, sarebbe stato ucciso secondo i famigliari del ragazzo napoletano.

Enrico “Chico” Forti si potrebbe definire forse il veterano dei detenuti italiani all’estero. Un caso emblematico. Forzando un po’ i dettagli, la sua situazione potrebbe abbracciare l’intero ventaglio di motivazioni che spinge noi italiani a varcare i confini nazionali. Imprigionato negli USA addirittura dal 2000, come Zaky anche Chico è stato arrestato sulla base di motivazioni sconosciute o pretestuose, quello che lo distingue è lo spropositato periodo che ha già trascorso in carcere, pur senza essere stato condannato per reati “diretti”: ventun’anni!

La caduta del Conte bis e il successivo insediamento del governo guidato da Mario Draghi, il 13 febbraio, avrebbe potuto far scivolare il caso dell’imprenditore inesorabilmente in fondo alla lista delle priorità. Sarebbe stato un vero peccato perché l’ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio si era dato un gran da fare, in particolare riguardo al 62enne trentino. Il 23 dicembre scorso, infatti, a seguito del consenso espresso dal Governatore della Florida, ne aveva annunciato l’imminente trasferimento ed il ritorno in Italia. Tuttavia l’entusiasmo delle prime ore era andato via via scemando. Tra l’altro non avevano certo aiutato i fatti di Washington, l’assalto a Capitol Hill, con la conseguente, burrascosa elezione di Joe Biden, né lo scacco matto di Matteo Renzi, né tanto meno il perdurare della pandemia che rende difficoltose e a volte quasi impossibili lo scambio di informazioni tra il carcere americano e i familiari e amici di Forti. Al momento c’è solo spazio per un inquietante e denso silenzio, a volte pregno di significati e a volte desolatamente vuoto. Le pagine facebook “Chico Forti Free” e “Chico Forti” sono insolitamente taciturne e sono in tantissimi a comunicare nei commenti il proprio sconcerto. Ci spiega Gianni Forti, zio di Chico, che l’intento è di tenere un profilo basso per non “indispettire” gli americani in questo delicato momento, perché il trasferimento verrà eseguito senza cambiare lo status di detenuto. Ora sembra che la questione debba passare attraverso il Dipartimento federale di giustizia statunitense. “Però se gli americano ritardano troppo – sottolinea con forza Gianni Forti – bisognerà che si muova ufficialmente l’Italia per andarlo a prendere”! Come detto, la situazione pandemica non sta aiutando a velocizzare le procedure di un eventuale trasferimento. Certo, l’atteso pronunciamento è destinato a segnare la storia della Giurisprudenza a stelle e strisce. Mai prima di ora infatti si era verificato un caso simile, e cioè che una condanna “definitiva” venisse messa in discussione. La concessione del trasferimento a Chico Forti costituirebbe un precedente molto importante per il Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti d’America. Forse “troppo” importante. Precedente delicato e rischioso. I motivi li possiamo facilmente immaginare, pensando alle migliaia di “Chico Forti” detenuti sulla base di sentenze impugnabili o procedure segnate da vizi di forma. Trasferito Forti, sulla giustizia americana pioverebbe una impressionante serie di ricorsi, da ogni parte del mondo. È per questo che l’azione del nostro ministro degli Esteri dovrà essere attenta e meditata.

Ma perché Enrico (per tutti Chico) è rinchiuso da oltre 21 anni in una prigione dello stato della Florida? È accusato di aver fatto parte di un complotto che avrebbe pianificato un omicidio, ma il processo che lo ha condotto dietro alle sbarre oltre ad essere stato viziato da numerose violazioni si è concluso dopo un’ipotesi ricostruttiva fortemente falsata, senza che l’accusa presentasse alcuna testimonianza, né prove legali e/o logiche (compresa l’eventuale arma del delitto), prova del dna negativa e, soprattutto, senza un vero movente. 

È curioso, ma nella prima metà del febbraio del 1998, per ben due volte, una piccola provincia autonoma italiana posta a nordest, il Trentino, è costretta ad incrociare i propri destini con quelli degli Stati Uniti d’America. La prima il 3 febbraio, quando Richard Ashby e la sua brigata tentano di passare sotto i cavi della funivia del Cermis, provocando la morte di venti innocenti. La seconda, il 15 febbraio successivo, quando l’imprenditore Enrico Forti viene coinvolto, a Miami, Florida, nel caso “Pike”. Stranieri in territorio italiano, i primi; italiano in territorio straniero, il secondo. Peccato però che la proprietà commutativa funzioni solo con i numeri e non con i casi internazionali incrociati.

I piloti americani non vengono nemmeno giudicati da un Tribunale italiano, ma trasportati d’urgenza nel “Paese delle libertà” per essere giudicati oltreoceano. Sappiamo com’è andata a finire… Enrico Forti, invece, non solo viene giudicato da un Tribunale americano, ma il processo a cui viene sottoposto è degno di un racconto di Kafka o di una pièce di Dürrenmatt. 

Nato nel 1959, Forti si accorge molto presto di quanto stretta gli vada la provincia trentina. Inizia a girare l’Italia e il mondo. Diventa uno dei pionieri del windsurf, ma si dimostra abile anche in altre discipline sportive cosiddette “estreme”. Come se non bastasse, nel 1990, vince alcune decine di milioni di lire al quiz televisivo “Telemike”. I soldi sono la spinta definitiva verso il “sogno americano”, il Paese della Libertà che per lui, qualche anno più tardi, si rivelerà essere il Paese della Prigionia. Una volta in America (California, prima, Miami poi) Forti moltiplica le proprie attività, i progetti, le iniziative, anche nel campo immobiliare.

Mette su una società di produzione cinematografica che realizza filmati di sport estremi che poi verranno acquistati dalla ESPN (“Hang Loose”, 100 puntate…), la maggiore rete televisiva sportiva americana. Disegna tavole e accessori per il windsurf, orologi sportivi, gestisce un ristorante, crea una casa cosmetica che distribuisce maschere di bellezza anti-invecchiamento e, tanto per gradire, prende anche il brevetto di pilota e acquista un piccolo Cessna per le riprese aeree.

Ma per capire come sono andati i fatti che lo porteranno alla detenzione, dobbiamo partire da… Ibiza dove negli anni Ottanta, un avventuriero anglo-australiano, Anthony Pike, costruisce un piccolo hotel, aiutato da suo figlio Dale. Il Pike’s Hotel diventa in breve tempo un punto di riferimento per personaggi del jet-set internazionale dell’epoca, tra cui Boy George e George Michael che, con gli Wham ci gira addirittura il videoclip della canzone “Club Tropicana”. Il Pike’s Hotel è frequentato anche da un faccendiere tedesco di nome Thomas Knott che si presenta spesso ad Ibiza in compagnia del connazionale Siegfried Axtmann, titolare di una piccola compagnia aerea a Norimberga.

Qualche anno dopo, siamo nel 1993, per costoro la fortuna comincia a girare. Anthony Pike contrae il virus dell’Aids e gli affari per l’albergo vanno male e il figlio Dale ripiega in Malesia. Thomas Knott viene arrestato in Germania e condannato a sei anni per truffe milionarie. Quattro anni dopo, viene rimesso in libertà vigilata, ma fugge negli Stati Uniti (con i soldi e falsi documenti procuratigli proprio da Anthony Pike), dove viene introdotto dall’amico Axtmann nel residence esclusivo di Williams Island, Miami. Occupa un appartamento sopra il quale abita Enrico Forti e come copertura insegna a giocare a tennis.

Alla fine del 1996, Dale Pike supplica il padre di dargli una mano perché – a quanto pare – in Malesia si è cacciato in qualche grosso guaio. Anthony vola laggiù, ma la malattia si aggrava improvvisamente. Viene portato in Australia da Dale, a Sydney, dove vive l’altro figlio, Bradley. Subito dopo, ricoverato in una struttura per malati terminali. In poco tempo però l’uomo, con l’aiuto della seconda moglie Vera, vola in Spagna, dove si rimette miracolosamente in sesto.

Nell’aprile del 1997, Tony Pike cede la proprietà dell’ormai fatisciente albergo di Ibiza a delle società offshore delle Isole Jersey (Inghilterra).

Il corpo esanime di Andrew Cunanan

Aperta parentesi: il 15 luglio 1997, a Miami Beach, sulla Ocean Drive, viene assassinato lo stilista Gianni Versace. Pare che l’assassino sia tale Andrew Cunanan, suicidatosi su una casa galleggiante durante un “assedio” della polizia di Miami. In seguito a questo drammatico episodio, Thomas Knott confida a Forti di conoscere l’intermediario di quella house-boat. Si tratta di Siegfried Axtmann… Enrico sta pensando di girare un documentario sull’affaire Cunanan-Versace, approfitta del contatto per acquistare i diritti sulla casa a scopo giornalistico. È lo stesso Knott a collaborare alle riprese del docufilm “Il sorriso della Medusa”, trasmesso successivamente in Italia e in Francia. Gli indizi e le testimonianze raccolte in esso avvalorano l’ipotesi che non sia stato Cunanan a sparare a Versace e la morte dello stilista sia da ricollegare a moventi legati alla malavita organizzata. Stando alla tesi di Forti, la polizia di Miami avrebbe inscenato un assalto in stile Fort Alamo solo per “suicidare” un uomo, in realtà già morto. Un’accusa molto grave, si capisce. D’altra parte alcuni strani episodi avvenuti subito dopo sembrano avvalorare la tesi del complotto. Cunanan viene portato via in un sacco nero e cremato in poche ore. La casa galleggiante affonda misteriosamente. Acquistato e trasmesso il 25 settembre 1997 da RaiTre, “Il sorriso della Medusa” sparirà dagli archivi della Rai; a tutt’oggi sul web non è reperibile in italiano. Se da una parte il docufilm gli rimedia un po’ di soldini, dall’altra a Enrico Forti procura la fama di “rompiscatole”. Chiusa la parentesi.

Fine 1997. Thomas Knott invita a Miami Anthony Pike, proponendo a Forti l’acquisto dell’hotel di Ibiza. All’italiano viene tenuto nascosto che il Pike’s Hotel non è più di proprietà del suo fondatore, ma per il 100% di società off-shore delle isole Jersey. Le stesse società possedevano anche il 95% della Cap Pep Tuniet che amministrava il Pike’s hotel. Tony Pike che diceva di disporre del 5% dell’intera proprietà, in realtà aveva in mano solo azioni al portatore che rappresentavano un misero 5% della Cap Pep Tuniet, cosa che Forti ignora. L’italiano non sospetta nulla, va a visionare la struttura e, il 13 gennaio del 1998, acquista le azioni di cui sopra, davanti ad un notaio spagnolo. Il 21 gennaio, Pike si reca a Miami, portando con sé un accordo di compravendita fasullo che Forti incautamente sottoscrive. Le clausole del compromesso prevedevano scadenze fissate per i successivi 30 giugno e 31 dicembre. Quindi, a ben guardare, in quel momento non vi era nessun contratto effettivo in essere!

Williams Island, Miami

Malesia, fine di gennaio 1998. Dale Pike viene a sapere che il padre è in contatto con Knott a Miami. Vuole incontrarlo anche lui, ma non ha i soldi per il viaggio. Nemmeno Tony ne ha. Dale ricorre così all’aiuto di Knott che, pur promettendolo, non lo farà. Ecco che allora il padre si rivolge a Chico Forti, convincendolo a pagare i biglietti aerei: prima per il rientro di Dale ad Ibiza e poi per ambedue i Pike a Miami. 

Il 13 febbraio, Tony Pike decide di posticipare la sua partenza di 72 ore e manda il figlio a Miami da solo, pregando l’italiano di ospitarlo in casa sua, nonostante egli non l’abbia mai visto né conosciuto prima. 

(Particolare importante: al processo, il movente dell’accusa ragionerà sul fatto che Dale Pike sarebbe andato a Miami per bloccare il contratto di compravendita. In realtà, Dale era già perfettamente conscio del fatto che il padre non era più proprietario di alcunché.)

Domenica 15 febbraio, la mattina Thomas Knott bussa alla porta di Enrico Forti. Ha saputo, da Dale stesso, del suo arrivo all’aeroporto alle 15 e si propone di andarlo a prendere lui stesso. Chico si oppone. Non vuole che il tedesco si intrometta troppo tra lui e i Pike, così ci va da solo.

Da sinistra, Dale, Anthony e Bradley Pike

Caso vuole che proprio quel giorno, alle 20, Chico debba andare a prendere – in un altro aeroporto, a Fort Lauderdale (80 km. a nord di Miami) – il suocero e i figli di questo. 

Chico giudica abbondantemente sufficiente il tempo a disposizione per i due “ritiri”.

Succede però qualcosa. L’aereo di Dale ha un ritardo di quasi due ore, a cui si sommano i tempi tecnici doganali. Lui e Enrico lasciano pertanto l’aeroporto internazionale, diretti a casa, attorno alle 18.30. Durante il viaggio, Dale chiede di potersi fermare in una stazione di servizio per comprare le sigarette e fare una telefonata (a Knott?). Quindi torna in auto e chiede di essere accompagnato al ristorante Rusty Pelican, sull’isola di Virginia Key (a circa 40 minuti da lì), dove a quanto pare c’è qualcuno che lo sta aspettando. 

Arrivati sul posto, Dale scende e si avvicina ad un tizio al volante di una Lexus bianca. Confabulano un po’, quindi torna da Enrico, si riprende la borsa, gli propone di rivedersi all’arrivo di Tony, il mercoledì successivo. Si salutano e Chico riparte. Alle 19.16, telefona a sua moglie Heather, confermandole di stare andando a prendere il suocero e i bambini. La telefonata viene registrata sulla Rickenbacker Causeway – la striscia di terra che collega Key Biscayne a Miami –, a circa due miglia dal Rusty Pelican. Alle 20, Forti è a Fort Lauderdale, come previsto.

Lunedì 16 febbraio. 17.30 ca. Dale Pike viene trovato nudo e morto in un boschetto lungo la Sewer Beach, a tre miglia di distanza dal Rusty Pelican – con accanto la carta rilasciata dall’Ufficio Immigrazione dell’aeroporto di Miami, il boarding pass, il pendaglio del Pike’s Hotel, ucciso da due colpi di arma da fuoco alla nuca: particolari che fanno pensare ad una vera e propria esecuzione.

Se Enrico fosse l’assassino avrebbe dovuto andare a Sewer Beach, eludendo gli sbarramenti e i divieti presenti in quel periodo, giustiziare Dale Pike con due colpi alla nuca, spogliarlo (la camicia insanguinata prova che questa è l’esatta successione), trascinarlo per diverse decine di metri, quindi far sparire i suoi vestiti, la valigia, cancellare le tracce degli pneumatici e prepararsi tra l’altro a mostrarsi calmo, pacifico e rilassato davanti al suocero e ai suoi figli. Il tutto in 10-15 minuti. 

Ma se non è stato Forti, chi è stato? Sono un vero enigma poi la presenza della carta d’imbarco, della carta dell’ufficio immigrazione e del boarding pass accanto al cadavere. Una specie di messaggio cifrato indirizzato alla polizia, la quale viene allertata nel pomeriggio del giorno seguente da David Suchinsky, un surfista che dopo aver scavalcato le recinzioni (dato che l’accesso era impraticabile dalla strada) si è imbattuto nel cadavere.

Giunti sul luogo del delitto, gli agenti telefonano alla compagnia aerea Iberia, domandando il numero di telefono lasciato dal passeggero, componendolo immediatamente. Il numero è quello del Pike’s Hotel. I poliziotti si fanno passare il direttore, Antonio Fernandez. “Che ci è venuto a fare a Miami, Dale Pike?” Fernandez impiega un secondo a riprendersi dallo choc della notizia, quindi risponde: “Doveva incontrarsi con Enrico Forti (detto Chico) e con Thomas Knott”. Inspiegabilmente, Fernandez non verrà ammesso come testimone al processo.

Mercoledì 18 febbraio. Enrico Forti e Anthony Pike hanno, dunque, un appuntamento a New York a casa di un’amica di quest’ultimo, Jane Fredericks. È proprio alla Fredericks che arriva la telefonata dalla detective Catherine Carter che la informa della morte di Dale Pike. Il padre in quel momento è ancora in volo e verrà informato dopo l’atterraggio.

Nel frattempo Enrico Forti, giunto anch’egli nella Grande Mela, chiama la Fredericks – cercando Tony – e questa informa pure lui della tragedia, consigliandolo di chiamare la detective. A quel punto l’italiano va nel panico. Non riesce più a tenere nella testa, tutte assieme, le cose occorse. Chiede aiuto telefonico all’ex capo della squadra investigativa di Miami, tale Gary Schiaffo, con il quale aveva collaborato durante le riprese de “Il sorriso della Medusa”. Quindi prende l’aereo per la Florida, giungendo a Miami prima di Tony Pike. Attende inutilmente l’albergatore nell’area riservata all’uscita passeggeri. (Pike era stato nel frattempo prelevato dalla polizia di Miami e tenuto nascosto al Regency Hotel e il Forti non avrebbe mai potuto incontrarlo).

Giovedì 19 febbraio. Enrico telefona alla polizia: “Guardate che Tony Pike è irreperibile…”. Chiama una seconda e poi una terza volta, quando la detective Carter gli dà un “appuntamento” in centrale, verso le 20 (perché proprio a quell’ora?!). Forti è preoccupato e non sapendo più che pesci pigliare richiama Schiaffo che lo tranquillizza: “Una formalità. Non occorre nessun avvocato”. Così, durante l’incontro al dipartimento – sempre secondo la tesi della difesa, non esistendo le prove di ciò – i detective Carter e Gonzales prendono da una parte Forti e gli confidano che Tony Pike è stato trovato ucciso a New York. A questo punto commette il suo errore fatale: dichiara di non aver visto Dale Pike. 

Venerdì 20 febbraio. Chico viene arrestato, imputato di truffa, circonvenzione di incapace e di concorso in omicidio, e sottoposto ad un interrogatorio di 14 ore. Senza avvocato. Nella notte, viene portato sul luogo del presunto delitto, ammanettato. Il Consolato italiano viene a sapere dell’arresto solo 9 giorni dopo. Il 25 febbraio viene arrestato anche Thomas Knott, mentre tenta di fuggire da Miami. Verrà successivamente estromesso dal processo grazie ad un discutibilissimo alibi.

Il 3 marzo, Forti viene rilasciato su cauzione, inizialmente fissata in dieci milioni di dollari: una cifra record per un caso di presunta truffa. Due giorni dopo, però, viene commutata (come? perché?) nel blocco dei beni dell’imputato.

9 ottobre 1999. Forti si reca al dipartimento di polizia con il suo avvocato per la chiusura del caso. Grande è però il suo stupore quando la giudice Platzer gli comunica di aver convertito l’accusa di “concorso in omicidio” in quello di “omicidio di primo grado a scopo di lucro”. Benché dalle accuse di truffa fosse già stato prosciolto in istruttoria, proprio la truffa diventerà l’incredibile movente del delitto.

L’11 ottobre, Chico viene arrestato per la seconda e definitiva volta. (Nel frattempo, Thomas Knott viene condannato dalla Corte della Florida per “truffe aggravate e reiterate sul suolo americano” e pertanto condannato a nove anni di carcere. In seguito, diventerà il principale testimone dell’accusa e patteggierà la sua condanna, con una riduzione a tre anni.)

18 maggio 2000. “Il processo? Una formalità”, parola di avvocati difensori. E invece la faccenda si complica. Forti vorrebbe deporre, ma i suoi difensori glielo sconsigliano. Per loro l’assoluzione è cosa certa. Si tratta del primo di una lunga serie di autogol che la difesa realizzerà durante la requisitoria. Il processo si trascina stancamente per venti giorni, durante i quali la giudice Platzer fa notare alle parti che si sta perdendo troppo tempo in chiacchiere.

I fatti ci dicono che il procuratore Reid Rubin riesce a convincere la giuria della colpevolezza dell’imputato basandosi solo su una “bugia” ritrattata dopo solo 24 ore. Senza presentare alcuna prova oggettiva, nessun testimone, nessuna impronta, nessuna arma del delitto, con l’esame del Dna negativo. Per non parlare del movente. Un comportamento scorretto, fuori legge, attuato in barba alla cosiddetta Regola Double Jeopardy secondo la quale, se un imputato è già stato assolto da un’accusa, quest’ultima non può essere usata in un altro processo. Ma Reid Rubin non si limita a ciò. Sapendo di avere diritto all’ultima parola, durante l’arringa finale usa il grimaldello dell’accusa per truffa, senza informare la giuria che Forti da quell’accusa era già stato prosciolto!

Alla fine, il 15 giugno, arriva la condanna. La giudice Victoria Platzer – che in passato aveva lavorato con Gary Schiaffo nella squadra omicidi – chiede alla giuria di pronunciare il verdetto: “Per avere il Forti Enrico, personalmente e/o con altra persona o persone allo stato ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno con la propria condotta partecipata, e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato, dolosamente e preordinatamente, la morte di Dale Pike…” (traduzione: magari tu non c’entri niente ma ti condanno lo stesso).

Ma il meglio delle proprie capacità sofistiche la giudice lo dà subito dopo il pronunciamento della giuria popolare, quando esprime il suo parere con queste parole (la traduzione è letterale): “La Corte non ha le prove che lei sig. Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ho la sensazione, al di là di ogni dubbio, che lei sia stato l’istigatore del delitto. I suoi complici non sono stati trovati ma lo saranno un giorno e seguiranno il suo destino. Portate quest’uomo al penitenziario di Stato. Lo condanno all’ergastolo senza condizionale”.

Da quel momento, sei mozioni di appello per la revisione del processo verranno rifiutate senza discussione, opinione o motivazione.

Chico Forti con l’amico Roberto Fodde. Settembre 2019

A volte una parola – da sola – può rivelare più cose di quante si possano immaginare. In Florida, nei pressi di Miami, tra le paludi delle Everglades infestate di voraci coccodrilli, c’è un carcere di massima sicurezza. In quel carcere una cella. In quella cella un uomo, un italiano, vive da due decenni, dopo aver perso la moglie, i figli, la casa, la libertà. Dopo aver dovuto apprendere della morte per crepacuore di suo padre Aldo. Tutto, diciamo tutto, per una sensazione…

Nell’estate 2020, il fratello di Dale, Bradley Pike ha scritto una lettera al Governatore della Florida dichiarandosi convinto che la condanna di Forti sia stata ingiusta e sbagliata e dicendosi assolutamente favorevole ad una sua scarcerazione.

E adesso sono passati vent’anni. Enrico Forti ha compiuto 62 anni. Le urla di giubilo levatesi dopo l’annuncio del 23 dicembre 2020 di Luigi Di Maio sono diventate una lontanissima e angosciante eco. Purtroppo la causa di Chico ha perso un’importante propugnatore come Riccardo Fraccaro, ex segretario alla Presidenza del Consiglio, che si era speso per la causa, in modo encomiabile.

Adesso siamo a Pasqua e ancora non ci sono notizie nuove. Sicuramente gli americani non si faranno premura per il rientro di Chico in Italia. E se fosse il caso – ci rivolgiamo qui al nostro Ministro degli Esteri – di andare a prenderselo?! O quanto meno di recarsi in Florida per sollecitare “davvero”, ed in prima persona, l’agognato trasferimento? È quello che, dal giorno del suo annuncio, tutti gli italiani oramai si aspettano.

Intanto resta solo una domanda, la stessa che si solleva pensando a Lara e a tutti gli altri italiani intrappolati nelle maglie della burocrazia di un altra nazione: fino a quando?

Le lacrime di Veronica

Il 4 maggio 2019, la rete televisiva americana CBS trasmette una documentata inchiesta, per la serie “48 hours”. Tra le molte testimonianze spicca il racconto di Veronica Lee che all’epoca del processo aveva 19 anni e faceva parte della giuria popolare che ha condannato Forti. Senza mezzi termini, abbandonandosi alle lacrime, la Lee racconta i retroscena del verdetto del 15 giugno 2000. “L’intero processo è stato una farsa”, dice, “e molte informazioni ci sono state nascoste”. Aggiungendo, con il viso rigato di lacrime, un particolare sconcertante: “Sono stata bullizzata dagli altri giurati perché sostenevo che ci fosse un ragionevole dubbio sull’innocenza di Chico, e mi hanno forzato psicologicamente affinché cambiassi il mio voto. Da vent’anni mi porto dentro il rimorso di non essermi opposta al verdetto…”

L’accusa legata ad un granello di sabbia

L’unico, debolissimo, indizio presentato dall’accusa è rappresentato da un reperto di sabbia prelevato dal tappo del gancio di traino dell’auto di Enrico Forti. Il mezzo viene smontato pezzo per pezzo il 5 marzo. Non viene trovato nulla di significativo. Venti giorni dopo, il poliziotto John Campbell guida l’auto fino a Dodge Island (senza la necessaria autorizzazione del magistrato), solo allora “scopre” alcuni granelli di sabbia nel tappo del gancio di traino. Una settimana prima della sua testimonianza, non avendo fatto fotografie all’originale, scatta alcune polaroid ad un mezzo simile (sic!). Peccato che lo stesso Forti, prima che l’auto gli venisse sequestrata, l’aveva guidata più volte in posti diversi, spiagge comprese. Ma soprattutto, la sabbia delle spiagge di Miami è di riporto, pertanto è compatibile con qualsiasi spiaggia dei dintorni! Su questo punto gli avvocati Loewy e Bierman si dimostreranno clamorosamente latitanti.

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.