I detrattori, fin dal suo debutto in sala, non hanno fatto che reclamare a gran voce: “C’era davvero bisogno di un film che ci raccontasse la vita di Willy Wonka prima di diventare protagonista de La fabbrica di cioccolato?”. La risposta, a onor del vero, potrebbe essere semplicemente “no”, eppure, di qualcosa c’era e c’è ancora bisogno: dei film classici, classicissimi, che fanno sentire bene, che fanno tornare bambini i più grandi e sorridere i più piccoli, che non hanno necessità di enormi artifici e centinaia di scene girate davanti a un green screen, che sono solo pura magia. È in questo, che il “Wonka” di Paul King si rivela un film perfettamente riuscito.
Costruito – e costruito bene, dati i numerosi puntuali rimandi, soprattutto nelle parti finali del film – come un prequel a “Willy Wonka e la fabbrica del cioccolato” di Mel Stuart (1971), il nuovo racconto finisce con l’accordo tra il cioccolatiere e un Umpa Lumpa, con il progetto di una fabbrica (e anzi di un vero e proprio franchising) da co-gestire, con un indizio su un biglietto dorato… Cosa ci viene raccontato prima, nelle due ore di film che scorrono rapidissime? Tutto il resto: l’infanzia di Willy e la sua passione per il cioccolato, i viaggi, gli ingredienti esotici e le combinazioni surreali che rendono celebri i suoi dolci. Il tutto condito, nello stile di una fiaba perfetta per il periodo natalizio, dal potere dei sogni e della caparbietà nell’inseguirli, e dall’importanza della bontà e dell’amicizia per il successo. O forse, guardandolo con un occhio più adulto e su un livello più maturo, dalla vicenda di un outsider che lotta contro un cartello e contro una società marcia e corrotta, trovando una via per “farcela”, anche con un pizzico di sana vendetta (ce la ricordiamo del resto bene la vena un po’ crudele che caratterizzava il Willy Wonka di Gene Wilder nei confronti dei prepotenti).
Senza scadere mai nello stucchevole, “Wonka” è un confettino cinematografico da guardare col sorriso a fior di labbra, decorato di canzoni (una su tutte la celeberrima “Pure Imagination”) e impreziosito di colori sgargianti, fenicotteri e voli pindarici trasportati da mazzi di palloncini. Un film elegante – come già elegante era “Paddington”, dello stesso regista, delicato, ironico e inglesissimo: ad esclusione del protagonista, interpretato da Timothée Chalamet, tutto il cast è composto da attori britannici. Ditene uno, e ci sarà: Olivia Colman, Rowan Atkinson, Matt Lucas e persino Hugh Grant, nei panni di un meraviglioso Umpa Lumpa.
Da vedere. Possibilmente in lingua originale, perché Chalamet non canta in playback e ci dimostra di saper fare davvero tutto.
Quella fabbrica è così irresistibilmente dark
Tra il “Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato” del 1971 e il nuovissimo prequel dedicato al suo protagonista, nel 2005 anche Tim Burton firmò un remake della stessa storia: “La fabbrica di cioccolato”. Una versione per la quale lo stesso regista dichiarò di non essersi ispirato al precedente lungometraggio e che cercava, attraverso le atmosfere burtoniane, di riportare in scena lo spirito più sagace, sarcastico e a tratti anche crudele di Rohal Dahl, autore del romanzo a capostipite di tutte le versioni cinematografiche. Il risultato fu un film che calcava la mano sull’emarginazione e la stranezza di Wonka (ma anche in parte sulla sua vena più sadica), impersonato da un pallidissimo Johnny Deep. Un film dalle atmosfere decisamente più dark e meno delicate rispetto alle altre due pellicole.