Come abbiamo smesso di pensare che gli animali esistano veramente

Nella favola folcloristica di Riccioli d’oro, una bambina dai capelli biondi come l’oro è ammonita quotidianamente dalla sua mamma: “Non avventurarti da sola nel bosco”, le ripete. Una volta che la bimba disobbedisce, scopre le ragioni delle raccomandazioni della mamma: si perde nel bosco e vive uno strano incontro con una famiglia di orsi: papà orso, mamma orso e il piccolo orsetto; una sorta di versione plantigrada della famiglia della stessa Ricciolidoro. Fuggirà a gambe levate e prometterà alla mamma di non andare mai più nel bosco da sola. 

La fiaba – come tutte le fiabe del folklore europeo – ha molteplici livelli simbolici, ma quello che qui interessa è che tipo di rapporto tra uomo e animale ci raccontano le fiabe. Quasi sempre si tratta di un rapporto di interdipendenza. L’animale inghiotte il o la protagonista…E quasi sempre questo è funzionale alla formazione del fanciullo o della fanciulla, che uscito dallo stomaco del lupo o dalla pancia della balena o dalla tana del serpente sarà più forte, realizzato, cresciuto. L’incontro con l’animale è l’occasione per diventare qualcuno o qualcosa

Come ha sostenuto ormai quasi cento anni fa lo studioso russo Vladimir Propp, nel suo bellissimo libro “Le radici storiche de racconti di fate” la maggior parte dei motivi favolistici che riguardano gli animali sarebbero antichissime reminiscenze di riti di iniziazione che i nostri antenati mettevano in pratica per segnare i vari passaggi dell’esistenza: in particolare, nel passaggio dall’infanzia alla vita adulta, l’animale avrebbe avuto un ruolo centrale: sarebbe stato il traghettatore tra il mondo dei bambini e quello degli adulti. 

Ascoltare questi racconti di fate preparava probabilmente i più piccoli a rituali a cui avrebbero davvero partecipato: l’allontanamento dalla casa di famiglia, un periodo di vita e allenamento nei boschi, l’inevitabile incontro con animali, fiere, pericoli e poi il ritorno al villaggio e il matrimonio

L’universo animale è stato dunque in un remoto passato una minaccia e una promessa. Gli animali potevano inghiottire ma anche proteggere ed aiutare i protagonisti, a seconda di come i giovani si sarebbero comportati, se avessero dimostrato coraggio e virtù.

Ma che tipo di rapporto abbiamo oggi con l’universo animale? Se analizziamo le favole o i cartoni animati contemporanei, gli ultimi decenni hanno visto un costante allontanamento nella rappresentazione degli animali dal mondo animale stesso; gli animali non sono solo antropomorfi ma vivono in città, lavorano, consumano, e fanno le stesse cose che fanno gli esseri umani (per esempio nel cartone Peppa Pig). La loro rappresentazione è lontanissima da qualsiasi possibile minaccia. Sono romanticizzati, idealizzati proprio perché lontani dalla quotidianità, relegati, nell’esperienza quotidiana, a zoo o immagini televisive: è come se non esistessero. Siamo talmente disabituati a pensare agli animali come reali, che quando emergono nello spazio pubblico con la propria presenza reale, costituendo una vera minaccia e un pericolo concreto, come nel caso di JJ4, andiamo in crisi: in crisi politica, in crisi culturale. Non ci sono favole che ci aiutano a collocare gli animali a una giusta distanza rispetto a dove siamo noi. 

Abbiamo smesso di pensare che gli animali esistano veramente, se escludiamo i nostri animali di compagnia o quelli sullo schermo.

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Pubblicato da Sara Hejazi

Cittadina italiana e iraniana, ha conseguito un dottorato di ricerca in Antropologia culturale ed Epistemologia della Complessità. Accademica, scrittrice, giornalista, collabora con molte università e fondazioni italiane oltre a scrivere su diverse testate. Ha pubblicato i saggi L’Iran s-velato. Antropologia dell’intreccio tra identità e velo (2008), L’altro islamico. Leggere l’Islam in Occidente (2009) e La fine del sesso? Relazioni e legami nell’era digitale (2017). Il suo ultimo libro è “Il senso della Specie” (Il Margine 2021).