Luca Attanasio, ambasciatore italiano nella Repubblica democratica del Congo; Vittorio Iacovacci, carabiniere. Ammazzati a colpi del “sempreverde” Kalashnikov in una località del Nord Kivu, regione orientale dell’ex-Zaire, ovvero dell’ex-Congo belga, mentre si stavano recando a visitare un programma di distribuzione di cibo del World Food Programme. Ucciso con loro, durante quello che è sembrato essere un tentativo di rapimento, anche l’autista congolese, Mustapha Milambo. Ucciso qualche giorno dopo sulla stessa strada anche un magistrato che indagava sull’agguato, William Assani. La morte in certi luoghi non bada al colore della pelle.
La guerra del Congo, definita da Madeleine Albright, segretaria di Stato Usa all’epoca della presidenza Clinton, “prima guerra mondiale africana”, per l’alto numero di paesi coinvolti, è difficilissima da riassumere. Troppo lunga, complessa, intricata, lontana, anche se per certi versi vicina, visto che dal Congo arrivano a noi ogni sorta di minerali preziosi, dall’oro all’uranio, dai diamanti al coltan usato in computer e telefonini. È una guerra che dura almeno dal 1994 in quanto “sottoprodotto” – sanguinoso e terribile – del genocidio consumatosi nel confinante Ruanda, quando le milizie hutu Interahamwe, assieme a parti dell’esercito regolare, sterminarono in un colpo solo almeno 800mila tutsi, l’etnia rivale fin dai tempi del colonialismo (che porta pesantissime responsabilità su questi eventi) e hutu non-collaborazionisti. Subito dopo, i tutsi, dall’Uganda, scatenarono una controffensiva che sbaragliò i genocidiari ma provocò l’esodo di milioni di hutu nel Congo/Zaire. I tutsi ruandesi però non si fermarono: assieme agli ugandesi, entrarono nello Zaire, un “gigante malato” sottoposto da decenni alla dittatura di Mobutu, per instaurare un governo amico e mettere le mani sulle sue ricchezze. Sono seguiti oltre 25 anni di “instabilità”, che nelle regioni centro-orientali della RD Congo è diventata guerra di tutti contro tutti. È lì che è andato il nostro ambasciatore. Poteva starsene tranquillo nella capitale Kinshasa. Ma evidentemente non era una persona da ricevimenti e cene di gala.
Sono stato nel Nord Kivu nel 2001 con Beati i costruttori di pace, un’organizzazione di Padova che portò laggiù 300 pacifisti europei, tra cui una ventina di trentini. Eravamo un gruppetto variegato: l’agricoltore, l’artigiano, la coppia di medici, studenti e studentesse, scout, un paio di amministratori, un giornalista (il sottoscritto) e così via. In Congo incontrammo anche un missionario di Volano, Giovanni Pross, che ha vissuto in Congo per gran parte della sua vita. Confesso che mi sentivo un po’ un osservatore, non pensavo certo che la nostra presenza potesse cambiare il corso di quella guerra, ma mi interessava vedere all’opera la “diplomazia parallela” che alcune organizzazioni pacifiste stavano cercando di mettere in piedi in quegli anni, già entrata in azione in Bosnia. Fu un’esperienza davvero emozionante, anche se breve: il tempo di attraversare l’Uganda (dove eravamo atterrati, non si poteva arrivare direttamente in quella parte del Congo), e poi la foresta del Kivu, e quindi di “animare” il confronto che le diverse fazioni in lotta avevano accettato di condurre, nella cittadina di Butembo, sottoscrivendo anche un “cessate il fuoco” di 3 giorni e garantendoci che non ci avrebbero fatto del male. Qualche giornalista nazionale seguì l’evento, fra cui Domenico Quirico, che ne parlò sulle colonne de La Stampa. Il nostro obiettivo in fondo era questo: far sì che il mondo aprisse gli occhi su quella guerra dimenticata. L’uccisione dell’ambasciatore e della sua scorta ha prodotto purtroppo, lo stesso risultato: per un attimo i riflettori dei media si sono riaccesi. Ma per quanto?