Contro la violenza, un lavoro collettivo

Una vittima ogni tre giorni: questo il numero dei femminicidi in Italia nel 2022. Ma cosa c’è dietro a questi numeri? Quali storie, quali percorsi, quale sostegno hanno le donne che incontrano la violenza in casa? E quali altre donne incontra chi decide di intraprendere un percorso di uscita dalla violenza? Perché se è vero che alle cronache arrivano solo le brutte notizie, è altrettanto vero che oltre al numero delle donne morte per mano di uomini che dicevano di amarle, ci sono molti altri numeri che raccontano invece storie di coraggio, di trasformazione, di riscatto. 

Elda A. Detassis è un’ex operatrice del Centro Antiviolenza di Trento. Per 14 anni ha seguito percorsi di uscita dalla violenza e da quando, due anni fa, ha deciso di cambiare lavoro, ha avvertito l’urgenza di raccontare la sua esperienza. Quella di una donna che ha conosciuto la violenza attraverso i racconti e le scelte di altre donne. Nella convinzione che il problema della violenza di genere sia di matrice più culturale che individuale e nella consapevolezza che, proprio per questo, dall’altra parte del telefono, potrebbe esserci ognuna di noi. 

Quando hai deciso di fare questo lavoro?

Veramente non l’ho mai deciso! Ho studiato giurisprudenza e durante il liceo avevo intrapreso un percorso personale avvicinandomi al femminismo. Al Centro Antiviolenza di Trento mi sono proposta come volontaria mentre studiavo all’università e mi sono iscritta al ciclo di incontri proposto dal Centro e aperto a chiunque volesse accrescere la propria consapevolezza sul fenomeno della violenza sulle donne. Al termine del corso si è aperta un’opportunità lavorativa: ero spaventata, non sapevo se sarei mai stata in grado di affrontare davvero ciò che fino a quel momento avevo solo conosciuto in teoria. A convincermi le parole di quella che sarebbe diventata poi la mia responsabile: “In un lavoro tanto complesso, mi fido di più di chi ha dubbi”.

Che lavoro fa concretamente un’operatrice di un centro antiviolenza? Qual era la tua giornata tipo?

La giornata iniziava con una riunione sui casi delle donne che sarebbero venute per il colloquio. Il confronto con le colleghe è fondamentale e per questo continuo, anche su questioni più macroscopiche, visioni sociali e culturali che credo siano fondamentali. La giornata era poi scandita dai colloqui: un incontro ogni ora ai quali partecipano sempre due operatrici, una che guida la conversazione, l’altra che prende gli appunti. Chi non era impegnata nei colloqui si occupava del telefono, la parte secondo me più delicata del lavoro. 

Perché? Come funzionano le telefonate?

Il telefono può suonare in ogni momento e le chiamate che arrivano sono per lo più da parte di donne che sono in una situazione di emergenza o che hanno appena subito un’aggressione. La telefonata è un momento delicato: è il primo contatto che una donna ha con il Centro ed è necessario entrare in connessione con lei, valutare il rischio che sta vivendo, tranquillizzare uno stato di ansia, fornire informazioni precise dal punto di vista legale perché le prime domande sono spesso legate a questa sfera. L’obiettivo è fissare un colloquio di persona, ma è importante non forzare. Penso che la cosa fondamentale sia credere davvero che le donne non siano in nessun modo responsabili della violenza che subiscono: è una sensazione di fiducia che si trasmette immediatamente.

Nel racconto del lavoro hai citato la relazione con le colleghe. Quanto è importante la collaborazione per un intervento efficace?

Il lavoro, soprattutto all’inizio, è molto pesante, ti mette in discussione su tutta la linea. Le colleghe con più esperienza sono fondamentali. Per me è stato di grande aiuto avere esempi davanti a me e allo stesso tempo mi è piaciuto molto quando ho potuto sostenere i percorsi di colleghe più giovani. La condivisione costante è fondamentale.

Cosa ti piaceva di più di questo lavoro?

Mi piaceva tantissimo condividere con le donne che seguivo una risata complice durante i colloqui. Non ci si pensa, anche se per chi lavora in ambito sociale non è certo una novità: in questo genere di professioni si dà molto, è vero, ma si riceve tantissimo. E sembra quasi incredibile che donne che arrivano distrutte, confuse, annullate riescano a trasmettere un senso di coraggio così grande. Il percorso che affrontano è tutto loro. È importante capire che le operatrici sostengono i percorsi di uscita dalla violenza ma si tratta di una strada che ogni singola donna affronta con il suo coraggio, la sua determinazione e la sua voglia di tornare ad essere sé stessa. 

Per 14 anni hai vissuto lavorando in un contesto in cui si respirava la violenza quotidianamente. Qual è la relazione che si instaura tra un’operatrice di un centro antiviolenza e la violenza stessa? 

La violenza diventa qualcosa che c’è, esiste e di cui si diventa consapevoli. Per me è scomparso il “non l’avrei mai detto” e ho imparato che per la violenza non esiste stratificazione sociale. È invece diminuita la paura, perché conoscere un fenomeno, dargli un nome, studiarlo fa diminuire il potere che ha di spaventarci. L’altra faccia della medaglia è il rischio di osservare la realtà attraverso il filtro che è invece necessario quando si fa un lavoro di questo tipo, entrando così in relazione con gli altri in modo meno leggero e spontaneo. 

Quale è, se esiste, il giusto livello di coinvolgimento delle operatrici nella relazione di sostegno alle donne che frequentano i centri antiviolenza?

Trovare l’equilibrio è molto delicato. Da un lato c’è il rischio di essere troppo coinvolte, avere un senso di responsabilità molto alto rischiando di forzare con consigli o indicazioni. Le donne che arrivano sono confuse, psicologicamente molto provate ma sono persone perfettamente in grado di scegliere per sé stesse. Ho imparato e condiviso l’approccio dei centri antiviolenza che sostengono le donne nel ritrovare i propri desideri, le proprie idee e le proprie priorità. Dall’altro lato c’è il rischio di iper proteggersi, non riuscendo a entrare in una relazione autentica. In entrambi i casi l’intervento diventa meno efficace. Inoltre c’è il duplice rischio di pensare di essere la persona che fa la differenza oppure al contrario quella che in nessun modo può fare la differenza. E invece il pensiero più sano che si possa fare è rendersi consapevoli che un’operatrice può essere parte di un complesso sistema a sostegno di una donna che esce dalla violenza. Questo è un pensiero mai scontato, va affinato e rimodulato quotidianamente.

Cosa è importante perché un percorso di uscita dalla violenza vada per il meglio?

Certamente è fondamentale instaurare una relazione di fiducia e credo che questa si crei smantellando il prima possibile la presunzione di essere immuni o superiori alla violenza. Aggiungo però anche che il lavoro dovrebbe essere prima di tutto sociale e culturale: questi fattori vengono presi in considerazione ancora troppo poco, invece le aspettative che la società ha nei confronti delle donne si intrecciano in modo significativo con i percorsi di uscita dalla violenza.

Come si gestisce un lavoro come questo all’interno della propria vita privata? È possibile parlarne in famiglia o con gli amici?

È molto difficile rispondere a domande tipo “come è andata al lavoro?” e anche quando si prova a rispondere si vedono facce che si fanno buie e la serata cambia piega; chi non lavora in un contesto simile si spaventa. Io evitavo: anche per questo la relazione con le colleghe diventa importantissima.

Ci sono momenti positivi in cui ti rendi conto di fare la differenza, a volte però immagino ci siano anche momenti dolorosi. Ti va di parlarne?

Sì, è successo. Lavoravo al Centro da diverso tempo e una donna che seguivo ha subito un gesto più efferato, più violento, meno aspettato. Per me era qualcosa di inconcepibile, che non poteva accadere. Ho provato un dolore nuovo: una sofferenza per una persona che conoscevo, di cui sapevo la storia, ma della quale ero consapevole di non essere amica: lei di me non sapeva nulla. Ho provato un dolore ibrido, vicino ma lontano al tempo stesso. Mi chiedevo che diritto avevo di soffrire e sentivo un grande senso di responsabilità. Mi interrogavo su cosa mi fosse sfuggito e non accettavo risposte consolatorie che tentavano di sollevarmi. Ero sgomenta, arrabbiata e avevo la sensazione che nessuno mi capisse. Per me si è trattato di fare i conti con la mia necessità di controllo, imparando che non tutto è governabile e che le nostre azioni non sempre sono determinanti.

Nei centri antiviolenza le operatrici sono tutte donne. Spieghiamo il perché? 

Arrivano donne maltrattate da uomini e una parte della motivazione si trova nella sensazione iniziale, nel primo impatto che una donna prova nell’incontrare un altro uomo. Inoltre una parte della metodologia dei centri è lavorare considerando il contesto culturale: chi ha esperienza di vita come donna comprende quasi automaticamente alcune dinamiche che producono la violenza. Non credo sia negativo costruire una nuova immagine degli uomini che le donne hanno a causa delle loro esperienze di violenza, ma è un lavoro che si affronta in un secondo momento. 

In molti si chiedono perché i centri antiviolenza non accolgono uomini…

Non nego che ci siano casi di violenza psicologica di donne nei confronti degli uomini ma la violenza nei confronti delle donne ha radici ben più profonde. Si tratta di una violenza normalizzata e questo dipende da ragioni culturali. Se guardiamo alla realtà della nostra società, non possiamo negare che la rappresentazione del corpo delle donne legittimi la violenza. Un esempio facile: quante donne vanno a correre e vengono raggiunte da fischi o “apprezzamenti”? Quante volte questo accade a un uomo?

Un’ultima domanda: perché hai lasciato questo lavoro?

Non è stata una scelta facile, in questo lavoro c’è molto di me e del mio modo di guardare il mondo. Ma è stata una sfida identitaria: la difficoltà che ho avuto nel lasciare è stata proporzionale a quanto mi identificavo in questo lavoro. Avevo un ruolo che mi dava un posto nel mondo. Forse volevo vedere me nel mondo senza questo abito addosso. Avevo bisogno di stimoli diversi e di mettere in campo la mia creatività: ora collaboro con una realtà teatrale.

Women power protest against gender violence and harassment. Girls diverse team show stop gesture. Female community, sisterhood, activist people together. Women cooperation vector illustration

Centro Antiviolenza di Trento

Il Centro Antiviolenza di Trento si trova in via Dogana 1 e offre assistenza e consulenza alle donne che subiscono violenza e alle persone che sono in qualche modo in contatto con donne in situazioni di violenza. È aperto il lunedì, il martedì, il giovedì e il venerdì tra le 8.30 e le 16.30, il mercoledì dalle 13 alle 19. 

Anticipato nel 1997 da un primo decisivo progetto telefonico di sostegno alle donne che affrontavano contesti violenti, il Centro nasce grazie all’Associazione Coordinamento Donne di Trento nel 2002. Da allora è impegnato quotidianamente nell’accoglienza e nel sostegno alle donne che subiscono violenza, ma anche nell’organizzazione e promozione di attività per un cambiamento culturale, per la sensibilizzazione e per la prevenzione della violenza di genere. 

Maggiori dettagli si trovano sul sito centroantiviolenzatn.it ed è possibile contattare il Centro Antiviolenza di Trento chiamando il numero 0461 220048 oppure scrivendo a centroantiviolenzatn@gmail.com 

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Pubblicato da Susanna Caldonazzi

Laureata in comunicazione e iscritta all'Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige dal 2008, inizia la sua esperienza professionale nella redazione di Radio Dolomiti. Collabora con quotidiani, agenzie di stampa, giornali on line, scrive per la televisione e si dedica all'attività di ufficio stampa e comunicazione in ambito culturale. Attualmente è responsabile comunicazione e ufficio stampa di Oriente Occidente, collabora come ufficio stampa con alcune compagnie, oltre a continuare l'attività di giornalista free lance scrivendo per lo più di di cultura e spettacolo. Di cultura si mangia, ma il vero amore è la pasticceria.