I confini sono sempre labili, si confondono, si sovrappongono e sfumano nell’indefinito. Segnano l’esperienza, l’io con la pluralità dei suoi frammenti e le loro faticose ricomposizioni. C’è un’opera che racconta e illustra la possibilità di andare oltre i confini, di superare ogni ostacolo, di aprirsi alla luce. È un lavoro del grande artista giapponese Maruyama Ozui: La carpa che risale una cascata, del 1799 (periodo Edo). Fortunatamente non occorre andare fino nella terra del Sol Levante per farci affascinare e incantare: basta recarsi al Mao (Museo d’Arte Orientale) di Torino e il grande dipinto verticale ce lo troviamo davanti. Solo quest’opera vale un viaggio. È un kakemono, un rotolo in seta che viene aperto in senso verticale ed è concepito come una decorazione da appendere. Essendo collegati a periodi specifici dell’anno o a occasioni particolari, questi tipi di lavori vengono esposti solo temporaneamente. Ma al Mao l’opera è sempre lì ad accogliere gli sguardi esterrefatti dei visitatori. Il tema della carpa che risale una cascata nasce da un’antica leggenda cinese: si pensa infatti che risalendo la cascata e attraversando il Portale del Drago il guizzante pesce possa trasformarsi in drago. In tutta l’Asia orientale la carpa è un animale dal profondo significato augurale di superamento degli ostacoli e di passaggio a un grado superiore di benessere. È un simbolo della trasformazione, della mutazione e per questo la troviamo ovunque, soprattutto nelle acque che circondano i templi. Perché lì indicano al pellegrino la strada del cambiamento del proprio essere, l’equivalente della soglia delle nostre chiese.
È un’opera sconcertante questa di Ozui. Poche e delicate pennellate ci mostrano la carpa che guizza controcorrente: sono pennellate decise nel timbro e nel tono, con grandi spazi lasciati vuoti dove domina l’assenza di ogni segno e colore. L’unico elemento che ci indica la presenza del pesce sono i due occhi, due cerchi con un puntino nero. Altrimenti le colate di nero che salgono (o scendono?) potrebbero confondersi con gli scrosci d’acqua. Per osservare attentamente il lavoro bisogna quasi danzare di fronte a esso: avvicinarsi, allontanarsi, riavvicinarsi. Sebbene il principale interesse del pittore sia stato quello di rendere la percezione della carpa che si muove contro una corrente impetuosa in maniera quasi impressionistica, qui ci troviamo di fronte a un lavoro che vive e respira ai confini tra la figurazione e la totale astrazione. E si evidenzia il gusto tutto giapponese per l’asimmetria: infatti la carpa è collocata sul lato destro (per chi guarda) del disegno, forse perché lì, ai bordi, la corrente è meno impetuosa e quindi più facile è il salto della risalita. Ma anche perché la cultura giapponese evita di creare uno spazio che sia la proiezione di un solo punto di vista, o di organizzarlo simmetricamente su un fulcro centrale concepito come il solo elemento determinante. La staticità equivale alla morte, l’immobilità al non respiro; lo scorcio laterale è invece un itinerario spaziale che presuppone una trasformazione interiore dell’uomo che lo percorre per rendersi degno dell’incontro che lo attende, ovvero l’incontro con il drago interiore.
È un’opera che ho molto cara, la desidererei appesa nel mio studio. L’ho rivista alcune sere fa, in un film – The Outsider (2018) di Martin Zandvliet –, tatuata sulla schiena di una donna, sorella di un alto esponente della yakuza, la mafia giapponese. Lei di carpe ne aveva due, una che saliva e una che scendeva. Perché bisogna avere non solo il coraggio di andare controcorrente, di trasformarsi e di raggiungere le nostre mete, ma anche l’audacia di scendere la corrente assieme al mondo, essere come tutti gli altri: la percezione del Sé e del proprio rinnovamento vissuto nella serenità del quotidiano.