Corniano: solo il vento bussa alla porta

Esplorare un luogo, un territorio oppure un borgo, fino a poco prima sconosciuto, è una bella sensazione da provare, ancor più in una realtà quotidianamente bombardata di informazioni come quella in cui viviamo, dove poco o nulla può dirsi ignoto. Dà modo di provare, per un attimo, l’effimero senso di conquista del viaggiatore-esploratore, benché sia pienamente consapevole di come pressocché ogni luogo sia ormai conosciuto, descritto e catalogato, e i dettagli e le informazioni sulla sua storia quasi sempre facilmente reperibili. Ad ogni modo, fortunatamente, anche senza spingersi troppo lontano esistono ancora posti un po’ dimenticati, dove lasciarsi il proprio presente alle spalle per un istante e farsi guidare dal piacere della scoperta…

Il primo segnale di indicazione per Corniano, venendo da Trento, lo si trova a Lenzima, percorrendo la ripida strada che si arrampica su per il paese. Di lì, dopo qualche chilometro nel folto del bosco, si arriva ad un bivio, presso il capitello dedicato a San Rocco, il santo protettore contro peste e colera. Arrivati a questo punto, proseguendo sulla strada principale si raggiunge Nomesino, piccola frazione di Mori; prendendo invece per l’erta via cementata che si inerpica sulla destra verso il monte Biaena si giunge a Corniano, raggiungibile sia a piedi che in automobile. Decidiamo però di affidare la macchina al buon San Rocco e percorrere quei due chilometri che ci separano dalla mèta a piedi. (Corniano è raggiungibile quindi anche da Nomesino, a cui si arriva dal bivio per la Val di Gresta a Loppio, e a piedi da Manzano, attraverso il Sentiero della Polsa; da Mori vecchio tramite il sentiero della Lasta, oppure prendendo la strada che scende da Passo Bordala passando per malga Somator). 

Adriana e Rino Bertolini davanti alla loro casetta recentemente rinnovata a Corniano

Il bello di una strada dove “fare gamba” come questa è che obbliga il camminatore a procedere lentamente, a guardarsi attorno, fermandosi a riprendere fiato e osservare le vallate e le montagne circostanti: la Vallagarina, le Valli del Leno, e più in là anche un pezzetto luccicante di Lago di Garda. Ad un tratto si arriva ad una conca, località Pianezze, contrassegnata da una croce in legno. Si dice che qui un tempo ci fosse un lago; ora l’area è coltivata a ciliegi e poco distante crescono quelle rigogliose verdure di cui la valle è tanto fiera: cavoli cappucci, verze, porri. Ai margini dei ciliegi, accanto a una casetta un cartello ci indica i resti di quello che un tempo era Castel Frassem (Castel Frassino), punto strategico di controllo della zona probabilmente già in epoca romana, che poi passò alla famiglia dei Castelbarco fino a venire distrutto dai bombardamenti dei soldati della Repubblica di Venezia nel ‘400. Ora infatti qui ci sono solo ruderi, nascosti dalla vegetazione del dosso. 

Continuando il nostro percorso, la prima avvisaglia che ci segnala che ci siamo quasi è una graziosa chiesetta su un pianoro, la chiesa di S. Agata, che sorge in un punto dove transitava un’antica strada romana che collegava la Val di Gresta con l’Alta Vallagarina, Bordala e Cei. Purtroppo, questa piccola perla di epoca romanica, datata al IX secolo, è stata sconsacrata ed è quindi perennemente chiusa. Ad aprirci e mostrarci le sue bellezze segrete è però la signora Adriana Bertolini, che vive a Mori, e sale quasi tutte le domeniche a Corniano col marito Rino per godere della tranquillità che si respira quassù. E meno male, perché la chiesetta merita certamente una visita. L’edificio ha subìto diversi restauri, anche perché intrusioni e razzie ripetute nel corso degli anni l’avevano danneggiato. L’ultimo restauro risale al biennio 2006-2007, durante il quale oltre agli scavi archeologici sono stati anche ripuliti i due splendidi affreschi del Cinquecento: nella parete Sud si ritrae una Madonna in trono con Bambino, insieme a S. Leonardo, l’Apostolo Luca, S. Antonio Abate e S. Giuliano; l’affresco di fronte, più rovinato e datato 1537, rappresenta invece un’Ultima Cena. Il restauro degli affreschi ne ha rivelati altri, purtroppo troppo rovinati per riuscire ad identificarli. Al di sotto dell’affresco che raffigura la Madonna col bambino, sono stati trovati addirittura quattro strati precedenti di affreschi, di cui il primo, il più antico, raffigurante delle croci rosse inscritte in circonferenze, dipinte probabilmente nel XIII secolo, in occasione della consacrazione della Chiesa. Un resto di affresco precedente raffigura invece S. Caterina. 

L’affresco raffigurante la Madonna con Bambino, insieme a S. Leonardo, S. Luca, S. Antonio Abate e S. Giuliano, conservato nella chiesetta di S. Agata

Un’altra testimonianza dell’antichità di S. Agata è l’acquasantiera in pietra a disegni geometrici, di epoca preromana, rinvenuta all’interno, che è ora conservata al Museo Diocesano di Trento. In questa piccola chiesetta è stato anche trovato un fonte battesimale, (ora in una casa privata a Pannone) a testimonianza di come, a suo tempo, la chiesa fosse piuttosto importante, infatti non in tutte le chiese si poteva battezzare. Ma il particolare forse più interessante e un po’ misterioso di questo gioiellino è la feritoia a croce latina della facciata che guarda ad Est, costruita in modo che i raggi del sole all’alba, nel giorno della ricorrenza di S. Agata, ovvero il 5 febbraio, filtrino attraverso l’apertura per attraversare la navata ed uscire dalla croce greca che taglia la facciata opposta. Abbiamo incontrato anche qualcuno, tra i passanti a passeggio incrociati in questa domenica, che ogni anno viene qui, a febbraio, apposta per vedere se i raggi di sole rinnovano questa piccola tradizione.

Superata la chiesetta, varchiamo finalmente il cartello di legno che ci introduce al paese “Corniano 1000 metri”. Se non fosse domenica, probabilmente qui non ci sarebbe nessuno. Ci spostiamo a osservare il panorama autunnale e arriviamo ad una grande lastra di pietra dove, ci racconta un signore di Manzano a spasso per funghi, si batteva il grano, per separarlo dalla pula. Nelle cavità di questa pietra si mettevano in ammollo i pali con cui si batteva il frumento, perché non si sfilacciassero. Adesso qui vicino ci sono dei giovani che fanno bouldering, ovvero, armati di magnesite, materassini e scarpette, vengono qui ad arrampicare sui grossi massi.

La fontana costruita di recente a Corniano, rivolta verso la Val Lagarina e le Valli del Leno

Si impiega poco tempo a visitare Corniano, dato che ora il paese è formato da pochissime abitazioni. Dalle testimonianze scritte però, si legge che una volta il borgo arrivava ad avere oltre 800 abitanti e quindi certamente le case erano molte di più. Parecchie hanno finito con l’essere abbattute e le poche rimaste dalla fine del ‘900 hanno visto un rinnovato interesse e sono state quasi tutte ristrutturate nel rispetto dell’originario stile rustico, da gente che vive nei paesi vicini o in valle, proprio come i signori Bertolini, Adriana e Rino, per venirci la domenica o l’estate, a prendere il fresco. Questo piccolo paese dunque si rianima solo alcuni mesi all’anno. Fino a qualche anno fa però c’era anche un circolo ricreativo, il Circolo S. Agata, che ebbe sede a Corniano dal ’96 al 2004. Un luogo di ritrovo, per giocare alle bocce e alle carte e organizzare gite, ma dove si faceva anche ristorazione. Poi purtroppo, ha finito col chiudere. Troppo marginale questo luogo e troppo poco frequentato. Peccato però, non si sta affatto male quassù; si prova una piacevole quiete in questo paesello profumato di bosco. Osserviamo i resti di una vecchia fontana, ne vediamo poco distante una nuova, e percorrendo un sentierino che conduce verso l’ultima abitazione, la più nascosta, ci imbattiamo addirittura in un pozzo romano, immerso nell’edera, che si trova accanto all’acquedotto. Proseguendo ancora un po’ più su, salendo per il sentiero nel bosco arriviamo infine a quello che era chiamato “Il Bus de la peste”, un ampio anfratto nella roccia, dove si dice venissero confinati i malati di peste nel 1600, a cui gli abitanti del paese portavano il cibo allungandolo con un bastone per non venire contagiati. Anche qui troviamo un gruppetto di giovani sportivi. Forse non sanno nulla della tragedia della peste che secoli fa colpì anche Corniano e questa valle, ma di certo sono venuti qui apposta, perché conoscevano la maestosa parete rocciosa che sprofonda, liscia, in questo fitto bosco. 

El “Bus de la peste”, il buco della peste. Si dice che in questa cavità rocciosa venissero sistemati i malati di peste, per evitare il contagio con gli altri abitanti del paese

Scendiamo infine di nuovo in paese per bere un the coi signori Bertolini. Loro sono stati tra i primi, ci raccontano, a tornare a Corniano, dalla fine degli anni ’70. “All’inizio non c’era la luce elettrica e qualcuno non voleva neppure che venisse portata quassù, ma certo è una bella comodità”, ci racconta la signora Adriana. L’elettricità infatti è arrivata soltanto a metà degli anni ’90, ci dice. Ora, insieme al marito Rino lei sale qui spesso, anche perché il marito ha piantato un vigneto di Müller proprio qui. “È uno dei vigneti che crescono più in alto di tutto il Trentino”, ci dice orgoglioso.

In questa stagione il paese è un po’ vuoto, aggiungono poi, fatta eccezione per chi viene qui perché ha una seconda casa, ma d’estate ci passano anche turisti e ciclisti, anche stranieri, curiosi di visitare le bellezze di questa valle, anche le più nascoste.

Ma perché da qui se ne sono andati tutti? Certo, è un posto piccolo, isolato, ma in fondo neanche così remoto; Mori e Rovereto distano una ventina di minuti in auto. 

Andiamo a farci dare qualche risposta dal signor Enrico Bertolini, che è un po’ la memoria storica della zona, un gioviale muratore in pensione che vive nella vicina Manzano, frazione di appena 124 abitanti, e che è ben disposto a condividere con noi i suoi ricordi e le storie che gli sono state raccontate su Corniano. 

“Da Corniano se ne sono andati via tutti per colpa della peste”, ci racconta.

Infatti, in vari scritti dove si approfondisce la storia della valle si documentano numerosi episodi di peste, dopo il 1300, tra cui anche la grande epidemia di peste “manzoniana” che nel 1630 colpì anche queste zone. Gli abitanti sopravvissuti quindi, furono costretti ad emigrare verso i paesi vicini di Manzano e Nomesino.

Secondo altre fonti, il paese era stato invece abbandonato nel 1440, prima delle rappresaglie dei Veneziani che distrussero anche i castelli di Albano (sul dosso che sovrasta Mori e il suo santuario), e di Nomesino (Castel Frassem). Ad ogni modo, è chiaro che in passato questo piccolo borgo rivestiva una posizione decisamente più rilevante rispetto ad ora ma che è andato via via progressivamente spopolandosi, per vari motivi, e probabilmente, arrivando infine al secolo scorso, anche lo sviluppo economico e industriale del fondovalle ha contribuito al suo definitivo abbandono. 

Ma ci fu qualcuno che restò anche in epoca più recente? Chiediamo.

L’ultima famiglia che rimase ad abitare a Corniano se ne andò nel 1865, quando ci fu un’enorme nevicata. Si chiamavano Bertolini, come me, racconta Enrico, quell’anno aveva nevicato talmente tanto che il capocomune di Manzano chiamò a raccolta tutti gli abitanti per andare a liberarli, facendo la “rotta” attraverso una vecchia mulattiera per arrivare fino a casa loro. Ci impiegarono due giorni, per scavare una strada e raggiungerli. Dopodiché, i Bertolini andarono a vivere a Rovereto. 

Un altro dei motivi che scoraggiarono a rimanere, anche chi qui viveva di pastorizia, era poi la mancanza d’acqua.

“Il problema è che a Corniano c’era la siccità. Quando ci mancava l’acqua mandavano noi ragazzini la notte, con la gerla, a riempirla dove c’è il pozzo romano. Ne usciva una goccia alla volta, ci si metteva moltissimo tempo. E poi mancava anche la corrente elettrica. Per farci luce usavamo dei bastoncini di pino rosso resinosi, che chiamavamo tia e che incendiati ci facevano da torcia. Adesso è tutto diverso, ci sono tutti i comfort, la luce e l’acqua corrente. Pensa, io sono stato tra quelli che hanno costruito l’acquedotto lassù, racconta, quel lavoro è stata la mia “scuola superiore”. Racconta ridendo. 

Enrico Bertolini sul terrazzo della sua casa a Manzano, piccola frazione di Mori.

Nel 1955 infatti venne creato un consorzio per costruire un acquedotto e portare l’acqua a Corniano. Prima di allora qualcun altro aveva provato a credere nella possibilità di far rivivere il paese, tentando altre iniziative. Una famiglia di Manzano infatti aveva provato a dar vita a una calchera, che avrebbe dato lavoro a 5 famiglie una volta avviata, ma alla fine, poiché il terreno sottostante crollò, non se ne fece nulla. La seconda calchera, invece, fu utilizzata per riparare il tetto della chiesa di S. Agata, che nel 1947 era stato danneggiato.

Ora qualcosa è cambiato, e il paesaggio appare diverso. Ci sono i tralicci della corrente che lo fendono, c’è l’acqua, qualcuno, seppure per hobby, ha provato a coltivare. Enrico guarda con favore al ritorno dell’agricoltura che sembra caratterizzare questi ultimi anni, soprattutto da parte di braccia giovani. “Ci sono tanti giovani che tornano nei campi, fanno biologico, biodinamico, cercano una vita più sana.” La sua stessa nipote, Elisa, gestisce insieme al marito un’azienda agricola a Manzano, coltivando ortaggi biologici. L’agricoltura che viene praticata oggi nei terreni di Corniano però è in misura molto ridotta rispetto a quanto avveniva in passato, ai tempi in cui Enrico, oggi quasi 86enne, era giovane. “Una volta Corniano era un giardino coltivato!”, ricorda. Infatti, dove la natura oggi si è ripresa i suoi spazi con gli arbusti del bosco, si vedono ancora i muretti dei terrazzamenti, che erano destinati alla coltivazione di ortaggi e allo sfalcio per nutrire le bestie. Inoltre è sparita anche la coltura delle noci, che si vendevano a un commerciante veneto, racconta Enrico, ora parecchie di queste vecchie noghère non ci sono più. 

Ma oltre all’agricoltura, Corniano, seppur disabitato, era sfruttato anche per l’alpeggio, per portare al pascolo le mucche. I ragazzini come Enrico venivano mandati a pascolare, da aprile fino a novembre, sin dalle ore dell’alba, per poi portare le mucche a mungere dalla Maria Bea, Maria Bertolini, la casara del paese. Enrico sorride nel ricordare quella donna autoritaria, una sorta di –“generalessa”, che faceva i formaggi in una delle casette di Corniano. Le mucche andavano munte due volte al giorno, racconta, al mattino e alle tre di pomeriggio. quando era il momento, per richiamare i ragazzini che erano al pascolo a portare il latte, la Maria sparava in aria una granata da un bozzolo di ottone. Allora i ragazzi si precipitavano subito da lei, correndo a perdifiato giù per i prati. La Maria misurava poi il latte appena munto con un bastone di nocciolo, dove aveva intagliato delle tacchette per indicare le varie misure, che poi registrava su di un asse, per segnare quanto latte aveva consegnato ciascun pastorello. I ragazzini dal canto loro venivano ricompensati con il siero, scartato dal latte, che veniva riutilizzato per nutrire i maiali. “Per filtrare il latte si andava a prendere una particolare specie di erica, che cresceva solo sul monte Stivo.” Ricorda ancora Enrico. 

I ragazzini però non potevano pascolare ovunque, c’erano anche dei luoghi proibiti, ma si sa, la tentazione di andare oltre era forte, e così si spingevano oltre il “confine”, imbottendo con cura le campane delle mucche di erba, affinché nessuno si accorgesse che avevano varcato il confine proibito. I pascoli, benché più numerosi di adesso, continua, non erano comunque abbastanza e a volte bisognava portare le mucche nel bosco a far mangiare loro le foglie. Uno dei motivi che posero poi fine alla tradizione dell’alpeggio da queste parti fu una misura introdotta dalla provincia nel 1992, ovvero i finanziamenti che vennero concessi per macellare le bestie e togliere le stalle. Questo provvedimento, che tutti gli abitanti locali considerano un grosso sbaglio, afferma Enrico, è stato un vero disastro per l’alpeggio, ha fatto sì che da allora non venisse più praticato, di conseguenza i pascoli furono abbandonati.

Il tempo in compagnia di Enrico vola, e in un batter d’occhio trascorrono le ore, navigando, senza ordine di tempo, tra i suoi aneddoti. Tra i più curiosi voglio riportare il ricordo che a Corniano transitò nientemeno che Napoleone, che rubò le campane della chiesa di S. Agata. Nel 1770-1775 era infatti accampato nella vicina Valle san Felice e qualcuno si ricorda che le campane vennero staccate dal campanile, per poi caricarle su un carro a due ruote e trasportarle verso la stazione dei treni. Di certo, non avrebbero più suonato per scandire messe… 

Naturalmente, non tutto quello che Enrico racconta lo ha vissuto di persona. Molti dei ricordi e delle testimonianze che riporta sono stati tramandati a lui dal padre, Egidio, e dagli altri abitanti del posto, che discendono dagli abitanti di Corniano poi trasferiti nelle vicine frazioni. Enrico è dunque uno dei portavoce di questa storia, che, giustamente, racconta, molto volentieri perché non venga dimenticata. Anche lui ha una casa a Corniano, rimessa a nuovo, dove torna a volte per festeggiare i compleanni dei nipoti, o l’estate, quando arriva anche altra gente lassù. Quello che manca però rispetto a un tempo, ma che è un po’ una condizione diffusa anche nei paesi perennemente abitati, ammette un po’ mestamente, è lo spirito di comunità. Si rimpiange un po’ quella confidenza, quella voglia di stare insieme, propria della vita di paese. 

Lasciamo Enrico con grande simpatia, grati che lui abbia condiviso invece con noi i suoi ricordi su questo piccolo affascinante paesino, uno dei tanti borghi che popolano le nostre montagne e rimangono spesso silenziosi testimoni dei loro cambiamenti, del loro abbandono e spopolamento, e quindi del cambiamento economico e sociale che ha toccato le nostre valli. Ora fa buio, qui a Corniano non c’è più nessuno. Chissà, forse un giorno, qualche giovane si spingerà quassù, non solo la domenica, per scalare le rocce e passeggiare nel silenzio, ma per vivere e lavorare; magari decidere di coltivare qualcosa, proprio dove adesso crescono l’erba alta e avanza il bosco.

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Pubblicato da Silvia Tarter

Bibliofila, montanara, amante della natura, sono nata tra le dolci colline avisiane, in un mondo profumato di vino rosso. La vita mi ha infine portata a Milano, dove ogni giorno riverso la mia passione di letterata senza speranza ai ragazzi di una scuola professionale, costretti a sopportare i miei voli pindarici sulla poesia e le mie messe in scena storiche dei personaggi del Risorgimento e quant'altro. Appena posso però, mi perdo in lunghissimi girovagare in bicicletta tra le abbazie e i campi silenziosi del Parco Agricolo Sud, o mi rifugio sulle mie montagne per qualche bella salita in vetta. Perché la vista più bella, come diceva Walter Bonatti, arriva dopo la salita più difficile.