Cosa ci dice l’attentato a Salman Rushdie  

ph. www.news18.com (AFP)

Chi ci pensa più al fondamentalismo islamico? Magari qualcuno se lo ricorda, ma senza troppe emozioni, come si ricorda un bullo che ti tormentava alle scuole medie quando ormai sei già grande, hai famiglia, se sei fortunato hai anche un lavoro e ti porti appresso tutta una serie di altre preoccupazioni.

Siamo diventati “adulti” di colpo: due anni di pandemia, la crisi economica, quella climatica e una nuova guerra di prossimità ci hanno smaliziati…   In poco tempo abbiamo dimenticato i tormenti di quando eravamo ancora innocenti e spensierati: il fondamentalismo islamico. A guardarlo oggi, col senno di poi, ci sembra uno scherzo da ragazzini. 

Eppure, il fatto che uno smetta di pensare a qualcosa non implica che questa cosa non esista più. Come un memento, un revival o un reminder (se preferite l’inglese al latino) in un giorno del bel mezzo di agosto, Salman Rushdie – scrittore di cui quasi nessuno ha letto nulla, ma che tutti conoscono come colui che fu “maledetto” dalla fatwa dell’Ayatollah Khomeini – è stato accoltellato nello stato di New York proprio da… un fondamentalista! Nientemeno! 

La cosa è subito suonata sia ridicola che anacronistica. 

Ridicola, perché ormai Rushdie ha un’età tale per cui, secondo una certa logica criminale, non avrebbe più senso farlo fuori; anacronistica, perché la fatwa che lo colpì è del 1989 (per la pubblicazione del celebre libro “I versi satanici”), cioè apparteneva a un’altra era geologica e antropologica. Non c’erano nemmeno gli smartphones. Soprattutto, ancora sguazzavamo (tutti quanti) in narrazioni novecentesche che parlavano di “scontro di civiltà”, di razze, di nazioni, e altre cose vecchie di questo tipo. A quei tempi lontani la fatwa e la taglia sulla testa di Rushdie (come sempre accade) ebbero due conseguenze opposte. Da un lato misero in pericolo la vita dello scrittore, che visse sotto scorta per decenni e causarono la morte di Hitoshi Higarashi, suo traduttore giapponese (oltre all’accoltellamento del traduttore italiano Ettore Capriolo e al ferimento dell’editore norvegese del libro, William Nygaard). Dall’altro lato, però, la fatwa trasformò Rushdie in un personaggio di fama mondiale, il che gli permise di entrare nel jet set delle star del cinema, sposare modelle e attrici e trarre così dalla maledizione anche benefici economici e prestigio. 

Dunque perché mai un personaggio come l’Ayatollah Khomeini – che ricordiamo come fosse una sorta di Carlo Marx dell’Islam – aveva scelto proprio di mettere al centro dell’attenzione uno scrittore semi sconosciuto come Rushdie? Fu una scelta politica. 

Quando era uscito, il libro di Rushdie aveva fatto insorgere proteste in Pakistan, Bangladesh e Gran Bretagna, tra la comunità di origine pachistana. Khomeini, che si trovava alla guida dell’Iran rivoluzionario, voleva che l’Islam politico diventasse la causa ideologica di tutti i musulmani del mondo. Uno, cento, mille Iran, avrebbe detto. Così, si assunse l’onere di condannare Salman Rushdie, rompendo le relazioni diplomatiche con la Gran Bretagna e isolando ulteriormente l’Iran dalle relazioni internazionali, ma riportandolo al centro di un discorso panislamista (cioè che aspirava all’unità di tutti i musulmani) che si stava sviluppando in quegli anni. Ciò che accadde dopo lo sappiamo. Una parte dell’Islam politico divenne fondamentalismo islamico. A seguire, ci sembrò normale – per una distorsione mediatica – associare la parola “terrorismo” alla parola “islam”. Poi l’oblio. 

Questa estate sono stata in Iran, partita con la testa piena di questioni pandemiche, economiche e climatiche.

Passeggiando per il Bazar Reza della città di Mashad, in una bollente giornata di luglio, nel sentire urlare “Morte all’America, morte alla Gran Bretagna, morte a Israele” mi sono però scontrata contro la dura verità. Siamo ancora immersi nelle grandi narrazioni del Novecento. Lasciarle andare non sarà più una questione di scelta politica, ma di pura sopravvivenza. 

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Pubblicato da Sara Hejazi

Cittadina italiana e iraniana, ha conseguito un dottorato di ricerca in Antropologia culturale ed Epistemologia della Complessità. Accademica, scrittrice, giornalista, collabora con molte università e fondazioni italiane oltre a scrivere su diverse testate. Ha pubblicato i saggi L’Iran s-velato. Antropologia dell’intreccio tra identità e velo (2008), L’altro islamico. Leggere l’Islam in Occidente (2009) e La fine del sesso? Relazioni e legami nell’era digitale (2017). Il suo ultimo libro è “Il senso della Specie” (Il Margine 2021).