Di cosa parliamo quando parliamo di sovranità?

L’Italia, un paese che ha radicato nella propria identità un certo orgoglio per l’autodeterminazione, è in realtà intrappolata in una serie di compromessi, accordi ed eccezioni. Da settant’anni ospita basi militari americane, con testate nucleari nascoste sotto un velo di reticenza e accordi bilaterali mai davvero esaminati fino in fondo. L’ombra della presenza militare americana non è solo simbolica; è concreta, tangibile e sfida costantemente il nostro concetto di sovranità. Eppure, questo accade nel silenzio assordante di un governo che ha fatto della sovranità una specie di religione, un mantra ripetuto in ogni comizio, ma che si ritrova incapace di affrontare una realtà tanto complessa quanto compromettente.

Poi c’è la questione ancora più spinosa, quella dei crimini. E qui la situazione si complica ulteriormente. Gli Stati Uniti d’America non solo proiettano la loro influenza militare su territori che non sono i loro, ma sembrano riuscire, di fatto, a schermare i loro cittadini, i loro soldati, dalle leggi dei paesi che li ospitano. Quando un militare americano commette un reato in Italia, che succede? La legge italiana si applica davvero, con tutta la sua forza? I tribunali giudicano con la severità dovuta, o c’è un fattore indefinibile, un ostacolo invisibile che interferisce, che piega i comandamenti del nostro Codice Penale fino a renderli quasi irriconoscibili?

Consideriamo il caso di Julia Bravo, la soldatessa americana che il 21 agosto 2022 ha travolto e ucciso un ragazzo di 15 anni, Giovanni Zanier, mentre percorreva la pista ciclabile di Porcia. Al momento della sentenza, il risarcimento era già stato accordato da mesi con l’assicurazione Usaf, la quale copre la responsabilità civile per i militari americani. Sappiamo che non è in carcere. Condannata a due anni e sei mesi con pena sospesa, ha evitato l’aggravante della guida in stato di ebbrezza, nonostante un test alcolemico positivo effettuato dopo l’incidente. C’è un senso di frustrazione che emerge, un senso di giustizia che non si compie fino in fondo. Forse c’è qualcosa che sfugge, una diplomazia sotterranea, o forse è solo un caso sfortunato di vuoti giuridici. Ma la domanda rimane: se fosse stato un cittadino italiano, il risultato sarebbe stato lo stesso?

Poi c’è il caso dei due americani – Elder Finnegan Lee e Gabriel Natale Hjorth – accusati dell’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega nel luglio 2019, ucciso da undici coltellate. Condannati in prima istanza all’ergastolo, le loro pene sono state sostanzialmente ridotte in appello. I giudici hanno fatto cadere le aggravanti, ammesso il rito abbreviato. In particolare per Elder, accogliendo l’istanza di trasferimento ai domiciliari, i giudici hanno stabilito che la detenzione debba avvenire, così come chiesto, nell’abitazione della nonna del ragazzo a Fregene, centro del litorale romano.
Anche qui, non è tanto la sentenza in sé a pesare, quanto la sensazione che la giustizia si pieghi quando di fronte si trova un cittadino americano, specie se militare. Ogni decisione sembra il frutto di un sottile equilibrio tra leggi italiane e pressioni esterne.

Infine, arriviamo all’ultimo episodio, quello accaduto appena poche ore fa. Un giovane di 20 anni è stato accoltellato fuori da una discoteca a Fossalta di Portogruaro. Tra i fermati per l’aggressione c’è un militare americano della base di Aviano. L’accaduto, tragico e inquietante, apre un nuovo capitolo su un tema già troppo conosciuto: cosa accadrà questa volta? Cosa verrà negoziato a porte chiuse, lontano dai tribunali, affinché quel militare non debba affrontare una condanna severa? C’è una rabbia latente che monta, una frustrazione crescente. Il giovane aggredito lotta tra la vita e la morte, ma si insinua già il dubbio: la giustizia farà il suo corso?

In tutto questo, la sovranità sembra una parola vuota, un guscio svuotato di senso. I confini del nostro potere giuridico sono porosi, fragili, sottomessi a dinamiche che ci sfuggono, gestite da ambasciatori e diplomatici, ben lontano dalle aule dei tribunali. C’è chi vorrebbe parlare di patriottismo, di controllo nazionale, ma poi si deve fare i conti con la realtà: in Italia, da settant’anni, c’è una fetta di territorio che, di fatto, non risponde completamente alle nostre leggi, alle nostre regole. E in questo vuoto di potere, le vittime – come Giovanni Zanier, come Mario Cerciello Rega, come il ragazzo accoltellato – finiscono per essere schiacciate tra la giustizia che vorremmo e quella che, in definitiva, non possiamo esercitare del tutto.

E allora viene da chiedersi, con una punta di amarezza: di cosa parliamo davvero, quando parliamo di sovranità?

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.