Di scatto in scatto

“Un tempo lo consideravano lo scemo del villaggio per quella strana passione, per quella smania di scattare foto…”

È come se il tempo non fosse mai passato, in città, lui è sempre il ragazzo con la macchina fotografica al collo. Anche ora che non ha più i capelli ma una barba candida, ora che le rughe gli solcano il viso, le gambe non reggono più uscite di intere giornate, ora che ha ridotto l’attrezzatura da portarsi dietro all’osso per il peso eccessivo. E se un tempo, quando cincischiava tra le bancarelle del mercato per impratichirsi, qualcuno lo considerava lo scemo del villaggio per quella strana passione, per quella smania di scattare foto, oggi gli apprendisti che arrivano alla sua bottega, lo considerano un vecchio saggio la cui pazienza è inversamente proporzionale al talento. 

Se ne sta sempre più spesso seduto dietro al bancone, gli occhiali spessi poggiati sulla punta del naso, intento a lucidare con un morbido panno di daino un vecchio modello di Zenith, una macchina di fabbricazione russa che gli aveva regalato il padre quando, caduto il muro di Berlino e il regime comunista, si trovavano a buon mercato. 

Non si è mai interessato molto agli strumenti, ai segreti delle camere oscure o alle tecniche di post produzione. Sulla mensola sopra la sua testa fanno bella mostra, sotto qualche dito di polvere, una Minolta a pellicola, una vecchia Polaroid Land Camera degli anni ‘70 ed un paio di Nikon moderne, niente a cui sia realmente affezionato. Per lui si è sempre trattato di condensare tutto in quell’istante: la cattura dell’immagine, delle presenze e delle assenze che la luce rivela. 

E se nella vita ha scattato centinaia di migliaia di fotografie, non è stato tanto per farne qualcosa ma soltanto per la “bellezza del gesto”. Non è stato per mettere in ordine la realtà ma per ciò che quell’esercizio ben fatto trasmetteva: un piacere, intellettuale financo fisico. Per questo, fatta eccezione per il lavoro della bottega, quello commissionato, la maggior parte delle sue fotografie non sono state esposte, molti scatti sono ancora impressi soltanto su pellicola, mai sviluppati. E a chi gli chiede perché, risponde semplicemente che si tratta di una scelta personale. Probabilmente è questione di pudore poiché è da sempre convinto che ogni scatto narri del soggetto e dell’autore insieme, come si trattasse di un’entità unica e permanente. O forse, come l’Antonino di Calvino, uno dei pochi libri che ha letto in vita sua, è convinto che la fotografia possa condurre alla stupidità o alla pazzia dato che il fotografo cerca continuamente di possedere e far sua la realtà senza mai riuscirci e, a fronte di una piccola porzione, tutta la restante è destinata a sfuggirgli. O forse, il sempre è un’immagine troppo ferma e indelebile per lui, abituato all’eccitazione dell’attimo mutevole, irripetibile. 

Non fa che ripetere ai suoi giovani aiutanti: “Guardati attorno, testa di rapa, sii sempre curioso e impara a guardare le cose sotto la giusta luce”. La luce: soffusa, morbida, appena sbiadita. Una luce che lascia spazio all’immaginazione. Quella che sonnecchia negli angoli dei pomeriggi, quella che preferisce e attende pazientemente fin dal primo mattino, quando essa è ancora giovane, tagliente, sfacciata. Una luce vecchia, stanca, lenta sulla cui linea di mira mettere la testa, l’occhio e il cuore, accorgendosi che quando scatta, qui ed ora fanno meno paura di sempre. 

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Pubblicato da Denise Fasanelli

Mamma insonne e sognatrice ad occhi aperti. Amo la carta, la fotografia e gli animali. Ho sempre bisogno di caffè. Non ho bisogno di un parrucchiere, d’altronde una cosa bella non è mai perfetta. Ho lavorato nel campo editoriale, della comunicazione e mi sono occupata di marketing per alcune aziende. Ho pubblicato un libro insieme all’ex ispettore Pippo Giordano: “La mia voce contro la mafia”(Coppola ed. 2013). Per lo stesso editore, ho partecipato, in memoria dei giudici Falcone e Borsellino, al libro “Vent’anni” (2012) con un racconto a due mani insieme all’ex giudice Carlo Palermo.