Secondo i testi scolastici, le guerre le combattono soltanto gli uomini, le rivoluzioni nascono dal pensiero degli uomini, le donne al massimo sferruzzano vicino al camino, forse anche sgranando una Corona per gli sposi lontani.
Per quanto riguarda il Risorgimento e l’Unità d’Italia, l’unica donna ricordata è Anita, la sposa di Garibaldi, che per amore lasciò in Sud America il suo primo marito, si unì all’Eroe dei due mondi al quale diede quattro figli, lo seguì in Italia ed al suo fianco combatté per la Repubblica Romana, morendo infine nelle valli di Comacchio.
Altra figura femminile – non storicamente confermata, ma presente fino a qualche decennio fa nei libri scolastici – è la celebre Spigolatrice di Sapri che se ne andava un mattino a spigolare, vide una nave a vapore, un comandante dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro e trecento giovani e forti…
Ci sono state donne vere, questa volta non creature poetiche, ma intellettuali e combattenti che, affiancando i loro uomini nei salotti o sui campi di battaglia, con loro hanno rischiato e perduto la vita. E ci sono state altre donne che, negli stessi anni, hanno lottato perché a tutte le donne fossero riconosciuti diritti e dignità; perché l’educazione e l’istruzione femminile diventassero una realtà.
Dunque, è un universo di donne che, da un capo all’altro della penisola, ciascuna a suo modo, promuovono la condizione della donna, anticipando le femministe a noi più familiari.
Ci sono le piemontesi Maria Martini Salasco e Rose Montmasson, moglie ripudiata di Francesco Crispi, Teresa Confalonieri e Luisa Blondel, moglie di Massimo D’Azeglio; le campane Serafina Apicella e Alessandrina Tambasco; Teresa Perissinotti, moglie di Daniele Manin; le ferraresi Carolina Scutellari Boldrini, Marietta Rossi Scutellari, citata dai più noti intellettuali del suo tempo, da Vincenzo Monti a Ugo Foscolo, Malvina Mosti Costabili, Ginevra Canonici, Antonietta Massari Masi che trasformò la sua abitazione in “un centro dove si maturavano le idee di nuova redenzione e di libertà…” e Luisa Recalchi Grillenzoni; Colomba Antonietti, di origine umbra, e Antonietta De Pace, nata a Gallipoli da padre napoletano; a Brescia, Carolina Santi Bevilacqua allestì un ospedale da campo al seguito dell’esercito piemontese; nel 1849 lo stesso Mazzini a Roma affidò la direzione del Comitato di soccorso ai feriti a tre autorevoli signore: Cristina Trivulzio di Belgiojoso, che guidò anche un battaglione di 200 soldati volontari da Napoli a Milano, Giulia Bovio Pagliucci ed Enrichetta Di Lorenzo, compagna di Carlo Pisacane.
L’elenco potrebbe continuare ancora, perché il Risorgimento non è stato soltanto cospirazione e azione militare, è stato soprattutto processo di consapevolezza e di identità nazionale, mobilitazione delle coscienze, rinascita morale e civile. Le donne si impegnarono con appelli, lettere, poesie patriottiche, gesti simbolici, insomma in tutta quell’azione sotterranea fatta di educazione, di trasformazione dei comportamenti, dei sentimenti, dei culti.
L’8 novembre 1860, a Napoli, il “Suffragio delle donne dell’Italia meridionale” scrisse a Vittorio Emanuele II dichiarando “ingiusta e ingrata la nuova società, che nega affatto ogni diritto politico alla parte più viva e più influente dell’umano consorzio”.
E le donne romane?
Assenti, tranne una, Giuditta Tavani Arquati di Trastevere, appartenente a una famiglia di imprenditori, proprietari di un lanificio, abituata a vivere lavorare e pensare con gli uomini di casa, quindi anche a interessarsi del suo Paese, a desiderare la fine della Roma papalina…tanto che col marito fu costretta all’esilio, dal 1849 al 1865. Rientrati a Roma da clandestini, vissero continuando a coltivare l’idea di un Regno unitario e Giuditta, mentre ammucchiava e distribuiva armi, nei magazzini di un lanificio, fu scoperta dopo lo scoppio di una bomba e brutalmente trucidata insieme agli altri “traditori”.
Era il 25 ottobre 1867. Non fece in tempo ad accogliere i Bersaglieri a Porta Pia, né a partecipare – perché esclusa, come tutte le donne – al Plebiscito di annessione al Regno d’Italia il 2 ottobre 1870 o a sapere che la Legge n.°33 del 3 febbraio 1871 avrebbe deliberato il trasferimento della capitale da Firenze a Roma.
Altre donne, pronte a mettersi in gioco e a morire per i Savoia, non se ne trovano.
Edmondo De Amicis, nel libro “Le tre capitali”, in verità ne cita una, ma è dipinta, ed è la Madonna: La Porta Pia era tutta sfracellata, la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta.
Per capire il mondo delle donne pro-pontefice, è interessante leggere le “Memorie della mia vita” di Cecilia Serlupi Crescenzi, nata in Inghilterra nel 1833, arrivata a Roma sposa del marchese Luigi Serlupi, Cavallerizzo Maggiore di Sua Santità e subito inserita negli ambienti “che contano”:
Tutti stavamo colla speranza che Iddio Benedetto non avrebbe mai permesso che Roma cadesse nelle mani altrui…Il 20 settembre 1870 alle cinque antimeridiane, Luigi ed io ci svegliammo sentendo continui colpi di cannone. Luigi si alzò, si vestì ed uscì, portandosi dal marchese Giulio Vitelleschi ed ambedue si recarono a piedi in Vaticano non avendo potuto trovare una carrozza…Lì udirono la Messa del Papa e dopo, ogni tanto usciva in anticamera, per parlare colla sua Corte. Era (il Papa) molto addolorato pensando al sangue che si spargeva… Alle undici fatta la breccia, Sua Santità ordinò la cessazione delle ostilità…i Romani erano furiosi quando videro issare la bandiera bianca. Avrebbero voluto tutti dare il loro sangue per il papa e Roma…ogni tanto si sentivano strilli, urli, poi passavano alla spicciolata soldati italiani…
Si barcamenano, diplomaticamente, le mogli dei ministri che si trasferiscono a Roma, come Amalia Flarer, moglie di Agostino Depretis e Laura Acton, moglie di Marco Minghetti. Ersilia Caetani Lovatelli – di madre liberale, anglofila e anticlericale, mentre il padre Michelangelo era principe di Teano, duca di Sermoneta e per pochi mesi ministro pontificio – archeologa, nominata membro onorario dell’Istituto di corrispondenza archeologica nel 1864, prima donna ad essere ammessa all’Accademia dei Lincei nel 1879, ha ricevuto nel suo salotto esponenti del nuovo mondo politico e intellettuali come Carducci e D’Annunzio.
In situazione per così dire di “par condicio” Julie Bonaparte, cugina di Napoleone III, detta “salonnière” di professione, nasce nel 1830 a Roma, dove ritorna dopo una permanenza a Parigi; trova la città stravolta dall’arrivo dell’esercito italiano e dal cambio di governo e la società lacerata da divergenze e incomprensioni tra anti e pro Papa o Savoia. Desiderosa di vedere in Roma la grande città cosmopolita, riceve nel suo salotto di Foro Traiano diplomatici e politici, insieme alle signore della buona borghesia.
Dunque, a parte un paio di salotti, le donne romane cosa fanno? Come sempre a loro si assegnano o i consueti compiti di cura o l’istruzione di bambini e fanciulle, in una Roma con il 60% di analfabeti: ricordiamo, tra le altre, Giulia Centurelli, letterata e artista marchigiana, di formazione mazziniana, ed Erminia Fuà, di origine veneta e di famiglia ebrea, che si dedicarono alla Scuola Superiore femminile della Palombella di Roma.
Tutto qui, fanno più le immigrate delle indigene.