Dismissione. Quello che rimane

Frammenti. Sito industriale dismesso a L’argentière-la Bessée (Francia)

di Liria Veronesi e Lorenzo Migliorati.

Tra il 2018 e il 2021, l’Unione Europea ha sostenuto, attraverso il programma di cooperazione territoriale Alpine Space, un progetto di ricerca e analisi internazionale su un tema particolarmente importante anche nella montagna italiana: la dismissione industriale, cioè quel processo di progressiva contrazione del settore primario, con particolare riferimento alle zone di montagna e le sue conseguenze economiche, urbanistiche, sociali, culturali, identitarie e ambientali. Il progetto trAILs – Alpine Industrial Landscape Transformation, è stato coordinato dalla cattedra di Architettura del paesaggio della Technische Universität di Monaco di Baviera, diretta da Udo Weilacher e ha coinvolto dieci partner e diversi osservatori. Per l’Italia, ha partecipato l’Università degli Studi di Verona con un team di ricercatori composto, tra gli altri, dai sottoscritti.

Sono stati analizzati alcuni casi di studio in quattro comunità alpine e prealpine europee, ciascuna delle quali ha vissuto un periodo, più o meno lungo, di sviluppo e sfruttamento industriale delle risorse locali, e tutte alle prese con processi di dismissione industriale. Si tratta di Eisenerz, nelle alpi stiriane austriache; Borgo San Dalmazzo e Valdieri, nelle Prealpi Marittime in Italia, L’Argentière-la-Bessée e La Roche-de-Rame ai piedi dei massicci dei monti Écrins nelle Alpi Marittime francesi e Tržic, nelle Alpi Caravanche in Slovenia. Per quanto riguarda noi, nei quattro casi di studio abbiamo condotto uno studio multidisciplinare e multidimensionale su aspetti sociali, economici e culturali, in chiave diacronica tra passato, presente e futuro sulle conseguenze sociali dei processi di dismissione industriale in ciascuna delle quattro comunità.

L’argentière-la Bessée e la valle della Durance (Francia)
Frammenti. Sito industriale dismesso ad Eisenerz (Austria)

Avevamo due domande: la prima relativa a ciò che le persone delle comunità che abbiamo studiato pensano e vivono a proposito del fenomeno che stavamo studiando. In altri termini: che cosa è successo qui? Qui, dove nell’arco di una o due generazioni, il mondo rurale e tradizionale è stato spazzato via dall’avvento della modernità industriale che, nel giro di altrettanto poco tempo, è pure essa scomparsa in favore di una pretesa transizione postindustriale che, spesso, è rimasta soltanto sulla carta o nelle intenzioni.

La seconda domanda aveva a che fare con la consapevolezza che ciascuna delle comunità che abbiamo studiato non fosse la sola ad avere a che fare con queste dinamiche; cioè, con l’idea che quello della dismissione industriale nelle aree montane è un tema transnazionale.

La modernità industriale, con i suoi portati di sfruttamento delle risorse primarie e (spesso) di espropriazione dei plessi sociali, culturali e simbolici delle terre alte, ha attraversato le Alpi come una meteora nel tempo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e, nella migliore delle ipotesi, la fine del Novecento. Ne sono discesi modelli di sviluppo imponenti e maldestri che hanno trasformato radicalmente comunità abituate da secoli a lente trasformazioni e che sono repentinamente scomparsi con la medesima velocità con cui erano apparsi. Sorprende ma fino ad un certo punto, rilevare esperienze analoghe in contesti transnazionali che, talvolta, sembrano differire soltanto per i differenti regimi di temporalità che hanno accompagnato il tramonto della storia industriale. Quell’età dell’oro lascia oggi dietro di sé molte macerie: quelle materiali stanno nei grandi scheletri delle aree industriali dismesse che punteggiano le valli alpine e prealpine un po’ ovunque in Europa; quelle sociali e simboliche risiedono nelle esperienze che le persone hanno vissuto e vivono circa queste trasformazioni. 

Il monte Erzberg (montagna di ferro) sovrasta Eisenerz (villaggio di ferro). Austria

Bisogna prestare attenzione: noi tutti siamo perlopiù a guardare la montagna con una visione doppiamente stereotipata che, con un po’ di semplificazione, possiamo rappresentare con la fotografia dei gerani ai balconi in legno naturale sullo sfondo delle facciate di fresca tinteggiatura dipinte di bianco e una quinta di montagne immacolate sullo sfondo. Nel senso comune, cioè, la montagna è il luogo del bello, dell’incontaminato, della purezza e del piacere, opposto al brutto, all’inquinato e al lavoro delle operose pianure. La realtà è diversa.

Lo spazio alpino costituisce uno dei motori dell’economia nazionale, e non soltanto grazie a comparti economici quali il turismo o lo sfruttamento naturalistico. Limitandoci al solo caso italiano, rileviamo, ad esempio, come una buona fetta del valore aggiunto nazionale, il 16,3%, venga prodotto nei territori montani, con differenze non poi così significative tra aggregati territoriali. Se, infatti, “la pianura” registra un valore aggiunto pro capite pari a 24.300 euro (anno 2014), la montagna si attesta a 21.600, ma con ampissime variabilità regionali. In Calabria, ad esempio, questo indicatore segna 13.200 euro, mentre le aree alpine maggiormente sviluppate (ex. Valle d’Aosta e Trentino- Alto Adige) registrano, addirittura 33.000 euro/pro capite di valore aggiunto prodotto. Lo spazio alpino, dunque, non appare troppo dissimile dalla pianura quanto a produzione di ricchezza; in taluni casi eclatanti, anzi, emerge come un territorio di considerevole produzione di ricchezza.

D’altra parte, non è tutto oro quel che luccica. Nel corso degli ultimi trent’anni, la montagna italiana ha subìto importanti processi di impoverimento e contrazione della ricchezza prodotta. Se trent’anni fa il numero di comuni italiani alpini che potevano disporre di un reddito superiore o almeno allineato alla media europea era piuttosto elevato – oltre la metà dei comuni alpini per circa 2/3 della popolazione, nel 2017 la situazione appare radicalmente mutata. Oggi, infatti, solo un quarto dei comuni alpini (per poco più della metà della popolazione) si colloca nella fascia alta di reddito. Inoltre, mentre il numero di imprese attive è cresciuto, in generale, in Europa tra il 2008 e il 2016, quasi raddoppiando i valori assoluti (da più tre milioni e mezzo a più di sette milioni), nello spazio alpino si è assistito ad un decremento di circa 6.500 unità che, per quanto lieve in termini percentuali (4,4%), costituisce un dato in forte controtendenza rispetto al continente. Se caliamo una sonda nelle sole province alpine italiane, la contrazione appare ancor più significativa, marcando un -11% nel numero di industrie attive nell’ultimo decennio (da 86.000 circa a 77.000 imprese).

Tra gli effetti emergenti da queste dinamiche, ci è interessato guardare a quel che è restato sui territori alpini, cioè gli spazi industriali dismessi, i brownfield della montagna, quegli alpine industrial landscapes che punteggiano lo spazio alpino e che costituiscono interessantissimi oggetti culturali, oltre che paesaggistici, architetturali ed ambientali. È stato calcolato che nell’intero arco alpino insistono circa 300 aree industriali completamente o parzialmente dismesse, limitandosi soltanto a quelle di dimensione almeno pari a ben 50.000 metri quadrati, relativi soprattutto ad industrie di materiali da costruzione, metallurgia, industria cartaria e tessile.

Il sito dismesso di Münichtal (Austria)

L’eBook

“Moving Alps. Le conseguenze sociali della dismissione nello spazio alpino europeo”, a cura di Lorenzo Migliorati, è il resoconto di un progetto di cooperazione transnazionale finanziato dall’Unione Europea e il racconto di un viaggio durato tre anni, lungo più di settemila chilometri in quattro comunità alpine europee che descriviamo come paesaggi culturali, a partire non dai gerani ai balconi in legno naturale, ma dal retrobottega: attraverso il prisma delle conseguenze sociali dei processi di deindustrializzazione. L’ebook ha vinto il Premio Leggimontagna 2022 per la saggistica. Migliorati è professore associato di Sociologia dei processi culturali presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona. È membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione Italiana di Sociologia.

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