Molti lettori ci stanno – e si staranno – chiedendo come mai nell’intervista alla dott.ssa Domenica Primerano – raccolta dalla brava Tiziana Tomasini tra agosto e settembre, e uscita sul numero di ottobre – non si fa cenno alcuno alle sue dimissioni e alla successiva querelle che l’ha vista protagonista in questi giorni. La verità è che l’intervistata ha ritenuto di non farne menzione con noi, nemmeno a microfono spento, salvo poi annunciarlo pubblicamente (sul proprio profilo Facebook…) alle prime luci dell’alba dell’8 ottobre, a pochissimi giorni dalla nostra uscita in edicola. Una reticenza che riteniamo immotivata e dannosa, in quanto ci ha costretti ad un’informazione non completa, in parte fuorviante, in apparenza “censurata”.
Lungi da noi, certo, voler “inventare” un nuovo colpevole, ma non possiamo certo nascondere la nostra delusione, oltre ad esprimere le scuse, per colpe evidentemente non nostre, ai numerosi e affezionati lettori.
(Pino Loperfido)
Una chiacchierata a due, nelle sale lignee ed austere del Diocesano, punto forte della cultura trentina, ma non solo. Da Domenica Primerano (Mimma per gli amici e le amiche) abbiamo sentito parlare di Europa, di nuove strategie socio – culturali, di apertura verso l’altro, di scambio. E poi di gusti personali, di passioni e di visioni della vita.
Direttrice, vuole raccontarci qualcosa di lei e come ha iniziato la sua carriera?
Sono nata a Casalmaggiore (CR), sulle rive del fiume Po. Mio padre era avvocato; mia madre casalinga. Nell’ultimo anno di liceo ho avuto come professore di Storia dell’arte un architetto. È grazie a lui che mi sono iscritta ad architettura: volevo impegnarmi nella conservazione degli edifici storici. Poi è maturata la passione per i musei…
Quindi l’interesse per i musei nasce da lontano.
Sì, io mi sono laureata in architettura con una tesi in museologia. Dopo la laurea, nel 1980, mi sono trasferita a Trento e ho cominciato a fare lavori diversi: supplenze, ricerche per lo IUAV (Istituto Universitario Architettura di Venezia), una collaborazione con il Museo Civico di Bassano del Grappa, e una collaborazione con uno studio di architettura per realizzare un libro sulle chiese della val di Sole. Nel 1989 sono stata assunta.
È sposata? Ha figli?
Sono divorziata. Ho un figlio di 31 anni, musicista.
Il museo non era certamente quello di oggi.
Il museo era limitato al primo e secondo piano (e neanche tutto), era chiuso d’inverno e le domeniche; c’era un telefono nero a rotella attaccato al muro. Non c’era il riscaldamento, non c’era l’apriporta e quando suonavano il campanello mi affacciavo alla finestra e andavo giù ad aprire. Bisognava partire da zero anche perché le collezioni non erano schedate, per cui ho coinvolto una serie di esperti nelle diverse discipline per catalogare il nostro patrimonio.
È stato un lavoro lungo ed impegnativo.
Abbiamo fatto un lavoro che è durato 7 anni: studio delle raccolte, selezione delle opere che sarebbero dovute essere esposte, campagna di restauri dei beni selezionati, interventi di ristrutturazione dell’edificio per trasformarlo in un museo moderno, occupando tutti gli spazi disponibili dotandoli degli impianti necessari per garantire una corretta conservazione delle opere.
Insomma si delineava una nuova era del Diocesano.
Nel 1995 abbiamo riaperto ed ho cominciato ad attivare diverse iniziative, a partire dalla didattica con le scuole. È stato molto impegnativo, perché si trattava di cominciare tutta una serie di attività che poi nel tempo sono cresciute: attività per tutti i target, mostre, ricerche, collaborazioni con altri musei, con l’Università…
Poi la nomina a direttrice.
Nel 1995, quando abbiamo riaperto il museo, ho avuto la nomina di vice direttrice; nel 2014, alla morte di Mons. Rogger, sono diventata direttrice.
La parentesi Covid ha segnato il settore museale.
L’8 marzo 2020 abbiamo dovuto chiudere il museo. Avevamo la mostra sul Simonino, che stava andando benissimo; avevamo prenotazioni per le scuole e avevamo già pensato di prolungarla, perché non riuscivamo ad accogliere tutti. La cosa che più mi angosciava di questa chiusura era la situazione dei nostri educatori. Noi abbiamo 10/12 educatori esterni allo staff che hanno perso il lavoro. Abbiamo cercato di occuparli, ma chiaramente gli introiti non c’erano più, le scuole non prenotavano.
Avete pensato a nuove modalità.
Con settembre 2020 abbiamo cominciato ad attivare dei percorsi online; qualche scuola ha partecipato, c’è stato un po’ di movimento, ma non certo paragonabile a quello che c’era prima. Poi gli ingressi sono contingentati: alle visite guidate possono partecipare solo 10/12 persone, non di più. E i costi ci sono ugualmente.
Anche in quarantena però non avete mollato ed avete realizzato dei progetti.
Nel periodo della chiusura abbiamo lanciato il “museo della quarantena”, che ha avuto grande successo. Noi abbiamo chiesto alle persone di mandarci la fotografia dell’oggetto che li ha aiutati a superare i lunghi giorni del lockdown. Questa iniziativa è stata anche citata dalla prestigiosa rivista Time, ha avuto un grande riscontro.
Non è stata l’unica iniziativa del museo che esce dalle sale.
C’è l’esigenza da parte della gente di non chiudersi all’interno di un museo, quindi abbiamo cercato di attivare delle iniziative “fuori”. Abbiamo progettato una serie di percorsi con l’APT di Rovereto con un accompagnatore del territorio. Questo specialista spiega dal punto di vista naturalistico il percorso e poi il nostro educatore illustra la chiesa e le opere che contiene.
Quali sono gli obiettivi?
Innanzitutto sottolineare il legame del museo con il territorio, che è uno dei capisaldi del nostro lavoro; in secondo luogo, offrire delle alternative alle persone che magari non hanno voglia di chiudersi in un museo e preferiscono stare all’esterno. Questa è un’altra importante traiettoria.
A ottobre avete inaugurato una mostra piuttosto “forte” emotivamente.
Quando abbiamo aperto il museo il primo di ottobre 2020 abbiamo inaugurato la mostra “Risvegli”, un reportage di tipo sociale curato da Stefano Schirato. Nell’ospedale di Pescara lui ha seguito persone che erano ricoverate in terapia intensiva. Alle immagini si associavano le interviste a queste persone, che raccontavano la loro terribile esperienza. Peccato che a novembre ci sia stata la seconda chiusura, quindi la mostra ha praticamente aperto e poi chiuso.
Periodo difficile…
Quello che ha caratterizzato questo periodo è stato proprio questa continua frustrazione nel progettare cose che poi non avevano l’esito che si sperava. Tutte le mostre programmate sono state fatte slittare.
Parliamo di come avete utilizzato i mesi di chiusura.
Visto che il museo da novembre 2020 era chiuso, abbiamo detto ora o mai più dobbiamo metterci a ripensare gran parte del museo. Nel 1995 io avevo ideato un percorso cronologico, che nel tempo mi è sembrato poco inclusivo, perché sostanzialmente destinato ad un pubblico di specialisti. Allora il pensiero è stato quello di rivedere tutto il percorso della pinacoteca, organizzandolo per temi anziché cronologicamente.
Questa logistica che finalità ha?
Questo consente alle persone di visitare il museo in modo diverso. Perché la gente va alle mostre? Perché c’è un argomento unico che viene sviluppato e illustrato, quindi è più semplice per il visitatore medio seguire il filo della narrazione. L’obiettivo è quello di raccontare, trasformare il museo in una grande narrazione.
E si è ispirata alla contemporaneità anche per spiegare opere antiche.
Nella sezione dedicata a san Vigilio, patrono di Trento, c’è una didascalia che cita un brano della canzone di Battiato “La cura”: i cristiani si rivolgono al proprio patrono perché si prenda cura di loro; tu, visitatore, a chi ti rivolgi? In futuro vorremmo anche realizzare delle didascalie partecipate, scritte dagli stessi visitatori con il nostro supporto ovviamente.
Siete usciti dal museo puntando a luoghi per niente facili…
Abbiamo lavorato nel carcere della città su alcune opere del museo. Il progetto è stato seguito in contemporanea da due classi di una scuola media di Vezzano: alla fine abbiamo realizzato una mostra con gli elaborati degli studenti e dei detenuti.
Dunque chiunque può leggere un’opera d’arte?
L’idea è quella di slegarsi dalla concezione di un museo che cala dall’alto, che dice cosa devi fare, come devi leggere quell’opera; io credo che le opere possano parlare alle persone, anche a quelle che magari non hanno i requisiti di base e non hanno studiato storia dell’arte.
La tecnologia è imprescindibile anche in un museo, vero?
Abbiamo inserito un tavolo multimediale, dove – a parte la storia del museo – ci sono le immagini e le schede delle opere, c’è una cartina con le provenienze, c’è una parte di giochi che invitano ad un’esperienza ludica del museo. Lungo il percorso ci sono poi dei QR Code: inquadrandoli puoi ascoltare un podcast, cioè il racconto del quadro. Una persona che non vede, lo sente raccontare. Lo sforzo in questi anni è stato quello di avvicinare il pubblico al patrimonio attraverso la tecnologia, per rendere accessibile culturalmente a tutti il percorso.
Adesso a cosa state lavorando?
Assieme al castello del Buonconsiglio e all’area archeologica stiamo progettando percorsi per malati di Alzheimer. In passato abbiamo lavorato anche col Centro di salute mentale della PAT. Questo per dire che il museo ha un ruolo sociale e noi su questo puntiamo molto.
Affrontate tematiche importanti.
Abbiamo fatto la mostra sulla Terra dei fuochi e tanti ci hanno detto: ma cosa c’entra con il Museo Diocesano? Papa Francesco ha scritto un’enciclica che parla dell’ambiente mi pare, dunque c’entra eccome; allora abbiamo chiamato un rapper napoletano, Lucariello, molto attivo nel sociale: un rapper in un museo diocesano, chi l’avrebbe mai detto?
Anche RE-velation la mostra sul velo ha fatto parlare…
Quando l’abbiamo aperta ci sono stati dei siti che ci hanno attaccato, ma è un tema culturale anche questo! Le donne che portano il velo: perché lo portano? Lo portano liberamente? Sono obbligate? È una tradizione solo orientale o è una tradizione che risale anche al cristianesimo?
La sua idea di museo è innovativa e per un Diocesano non è così scontato.
La mia idea di museo è che io conservo le cose del passato, ma devo parlare del presente, altrimenti il nostro lavoro è inutile. Il passato è passato: ci può dare degli input ma noi dobbiamo vivere nel presente; è questo che dobbiamo affrontare. Quindi la mia idea è che il museo, seppur ecclesiastico, debba essere un luogo di incontro e di confronto.
Lei ha rivestito anche un ruolo importante a livello nazionale.
Sono stata presidente dell’Associazione Musei Ecclesiastici Italiani per 5 anni e durante il mio mandato (che è scaduto a novembre 2020) avevamo inserito nella giornata dei musei ecclesiastici lo slogan “se scambio cambio” e quindi l’idea era di scambiare qualcosa con chi è molto diverso da te. Noi ad esempio abbiamo fatto lo scambio col Muse. Se ci sono musei molto diversi, sono i nostri. Un altro anno ho invitato la figlia dell’imam: lei ci ha donato la riproduzione di una pagina del Corano e noi la riproduzione di una pagina della Bibbia Atlantica, con un testo che parlava dell’incontro. Anche un museo ecclesiastico deve porsi il problema del confronto con altre religioni ed altre fedi.
Come vede il futuro dei poli museali e in particolare di questo museo?
Il futuro non è molto roseo. Chiaro che se faccio Botticelli, se faccio Caravaggio, se espongo il grande nome, raggiungo anche grandi numeri. I musei però non devono puntare solo sui capolavori, ma sul patrimonio, ovvero sull’insieme di beni (importanti o meno) che raccontano una comunità. I musei devono operare perché le persone acquisiscano consapevolezza riguardo al fatto che ciascuno di noi è al contempo proprietario e custode di questo patrimonio. Quindi è dal basso che lo si deve tutelare.
Cosa l’affascinava e l’affascina dei musei?
Il fatto che siano dei ‘non luoghi’, dove quindi tutto può succedere.
I tre musei più belli che ha visitato in vita sua.
Il Kolumba di Colonia; il Guggenheim Museum di New York, Il Museo Laboratorio della mente di Roma.
Cosa fa nel tempo libero?
Mi piace andare in bicicletta. Fare vacanze in bici soprattutto.
Si fa abbastanza per la cultura? (Italia e Trentino)
No, non si fa abbastanza. Insegno Museografia all’Università di Trento e mi si stringe il cuore sapendo che tutti questi studenti faranno fatica a trovare lavoro in un settore che, invece, potrebbe offrirne tantissimo. In Trentino il comparto è sempre più in crisi purtroppo.
Da donna è diventata direttrice dopo anni, in un ambiente (quello ecclesiastico) peraltro maschile per eccellenza. Come ha vissuto da donna questo passaggio?
Non è stato e non è semplice anzi. Per fortuna ho potuto contare per anni sul supporto di una persona speciale, Mons. Iginio Rogger, un uomo con lo sguardo rivolto sempre in avanti, che mi ha dato fiducia e incoraggiato.
Per i 20 anni del museo, Anansi!
“A vent’anni dalla riapertura del museo, non ho fatto il classico convegno; ho chiamato il musicista e cantante Anansi, lanciando l’evento su Facebook. Non le dico la preoccupazione di alcuni del mio staff perché a questo post avevano risposto in 200: ci rovineranno il museo! Ci porteranno la birra! Sono venuti effettivamente 200 ragazzi, non hanno bevuto, né rovinato niente ed è stata una serata bellissima! Alla fine erano i ragazzi che mi venivano a chiedere cos’è questo, cos’è quello. Due pregiudizi si sono incontrati: il pregiudizio di chi aveva paura di questi giovani e quello dei giovani nei confronti di un museo ecclesiastico.”