Viaggi, studio, incontri e Antropop. Le mille vite di Duccio Canestrini

Da sempre attento osservatore dei comportamenti umani, dopo anni di reportage giornalistici, l’antropologo si è reinventato conferenziere, all’insegna dell’Antropop. il turismo deve tornare a valorizzare le relazioni umane. Con lupi e orsi possiamo convivere solo se poniamo un limite alla nostra prepotenza. sul covid dice: “difficile che ci inventiamo un vaccino per ogni mutazione. Torneremo ad una nuova normalità

Dopo aver viaggiato e conosciuto molti popoli e culture, essersi occupato di formazione, aver scritto numerosi libri, offerto conferenze-spettacolo e consulenze, la sua antropologia ora sta con un piede nell’Università e con l’altro nella realtà di tutti i giorni.

Duccio Canestrini, da anni, è un attento osservatore dei comportamenti umani, in particolare in rapporto all’ambiente. Attualmente insegna Antropologia del turismo presso il Campus Universitario di Lucca (Università di Pisa). 

Nato a Rovereto nel 1956, è figlio della scrittrice Nives Fedrigotti e di Sandro Canestrini, avvocato, attivista e politico italiano idealista, nonviolento e pacifista.

I miei si sono separati presto. Mia madre scriveva e leggeva molto, ricordo che mio padre protestava per il ticchettio della macchina da scrivere che lo accompagnava fino al mattino quando poi doveva fare processi. 

Da adolescente e all’Università ho visto poco mio padre, si era risposato e ha avuto due figli. Ci ha fatti conoscere che eravamo già grandicelli, siamo partiti in salita ma poi, soprattutto grazie al suo impegno, siamo diventati fratelli veri. Quindi fratelli si può diventare.

Quando è nata la passione per i viaggi? 

Il viaggio è rimasto la costante della mia vita, forse più grazie a mamma che a papà, perché lui, pur essendo molto aperto, era legato a questa terra. Tant’è che quando partivo mi diceva: “Ma senti, non sei mai stato sul monte Cornetto, cosa vai in India a fare?” 

Ho frequentato la seconda elementare a Palermo perché mia madre, donna autonoma ed indipendente, era interessata a raggiungere una comune fondata da Danilo Dolci.

E ricordo l’estate: la mamma ci ficcava nella 127 rossa, dietro io, Fausto e Gloria; guidava spericolatamente per i boulevard di Parigi, fino alla casa che i miei genitori si scambiavano con una coppia di amici, uno scultore spagnolo e una donna francese. Stavamo vicino al mercato delle pulci, a nord della città. Straniato e spaesato mi accostavo alla diversità in sicurezza, ascoltando i fisarmonicisti nei bistrò, il jazz di cui mamma era appassionata nei locali di Pigalle, tra l’altro la zona a luci rosse. E, ancora, i musei dell’uomo, di storia naturale. Questa esposizione a cose insolite e il fascino della diversità mi ha accompagnato sempre. 

Con Giusi e Ulisse

Dopo la laurea a pieni voti in Antropologia culturale presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Siena, nel 1982, anni in cui avevi già viaggiato più di molti tuoi docenti, sei partito per una ricerca sul campo in India. Poi dal 1985 al 1995 sei stato inviato del mensile di viaggi e geografia Airone, di Milano. 

Partivo con un pacco di rullini o un fotografo in carne e ossa, soldi e libertà totale, almeno fino ad un certo punto. Poi, a partire dai prima anni ‘90, le cose son cambiate e i mezzi di comunicazione si sono adeguati allo spirito dei tempi. Non sono un conservatore da questo punto di vista, e qua viene fuori l’anima pop.

A Milano, facevo una vita abbastanza schizzata, sempre in giro grazie ad un lavoro stupendo, pagato bene. Ma avevo voglia di cambiare, cosa che per fortuna o purtroppo è una costante nella mia vita. Mi sono buttato sui documentari, con il programma Geo di Raitre. Ho pubblicato Turistario (Baldini & Castoldi): un piccolo stupidario dei modi di dire dei turisti dell’epoca che fece un certo scalpore perché, nei luoghi comuni dei nuovi barbari, c’eravamo dentro tutti. Sono tornato ad abitare in Trentino, pur continuando a viaggiare, dato che qui avevo più supporto nel crescere le mie due bambine e un migliore rapporto con la natura. 

Nel 1992 sei approdato ad insegnare Antropologia del turismo all’Università di Trento.

La docente di Antropologia dell’Università di Trento, Laura Bonin, compagna di Francesco Alberoni, riserva indiana in mezzo ad una quarantina di sociologi, era una tipa anticonformista e provocatoria che però non era proprio ben vista. Mi chiamò per farle da assistente, ho iniziato così. Poi ho dato le seconde drammatiche dimissioni della mia vita, dopo quelle da Airone, per la voglia di cambiamento, perdendo la possibilità di diventare strutturato.

Ad una delle conferenze-spettacolo

Mi sono reinventato, continuando a scrivere, buttandomi su questa formula delle conferenze-spettacolo. Utilizzavo dei lucidi da geometra con la lavagna luminosa che si accortocciavano sotto il calore, una cosa totalmente artigianale, ma ci riuscivo in qualche modo. Mi premeva la comunicazione di tutto: delle esperienze, diversità, opzioni di vita, della relatività dei modi di pensare, antropologia praticamente. 

Cos’è il metodo Antropop? 

Pop vuol dire che è un’antropologia “popolare”: per tutti. Mi interessa la condivisione, rendere fruibile le informazioni. E poi è pop nella forma e nei riferimenti che sono internet, televisione, fumetti, mondo dello spettacolo. Il format della conferenza-spettacolo, che sto adattando in parte ai webinar, è un mix tra ragionamento e divertimento, per realtà che nutrono il bisogno di avere antenne nel mondo: segnali che un osservatore sociale ha modo di captare. 

Ad Haiti con diario di viaggio

È un modo relativista e comparatista di vedere le cose: relativista perché tante volte i nostri valori non sono assoluti ma cambiano a seconda delle epoche e dei luoghi. E comparatista perché compari altre situazioni e persone. È una forma di elasticità mentale per risolvere dei problemi concreti vedendoli “out of the box”, ovvero fuori dagli schemi. Problemi spesso antichi e ancestrali, a volte moderni. Non si tratta di una cosa imparziale: un conto è studiare come sono le cose, un altro è auspicare che le cose cambino. Gli antropologi, secondo me, non dovrebbero limitarsi a descrivere come un tempo ma porsi domande e prendere posizione.

Come reagisce la comunità accademica di fronte a questo?

Gli antropologi non sono molti, ci si conosce personalmente o per i libri scritti, le idee che girano. Ognuno lavora un po’ per conto proprio, anche se qualcosa si muove: ho visto molti giovani con la voglia di fare rete, c’è gente che fa ricerche bellissime. Ho scoperto di essere apprezzato dai giovani, forse perché faccio qualcosa di diverso. Qualcuno ha alzato un sopracciglio chiedendosi ma questo cosa fa? È un giornalista o un antropologo, un comunicatore o un divulgatore scientifico? 

Un giovane Duccio Canestrini in Costa d’Avorio

Il futuro del turismo di massa. 

Ho appena finito un seminario per i giovani albergatori trentini che hanno bisogno di formarsi in un periodo dove lavorano poco e configurare scenari possibili. È interessante lo abbiano chiesto ad un antropologo. Ho trattato il tema dell’evasione turistica, cioè quello che spinge ad andare e il tema dell’antropologia dell’ospitalità. 

Fino alla fine del 2019 si parlava di over tourism: c’era questa idea che alcune destinazioni fossero massacrate dal turismo di massa divenendo un prodotto industriale. Ironicamente tutto è crollato. Ora si parla di under tourism, che è una dimensione interessante. Gli osservatori concordano tutti, sulla carta, nel valutare che occorre un ripensamento, un ridesign delle pratiche: il management, il marketing, l’offerta e l’ospitalità, insomma di tutti gli aspetti del turismo che aveva perso l’enfasi sulla relazione umana che è il sale e la sostanza di un viaggio. 

C’è però il rischio che tutto questo venga poi spazzato via dall’ansia di recuperare economicamente: belle parole ma bisogna ricominciare a fatturare. L’amico Enrico Camanni, scrittore e alpinista, in un’intervista a Repubblica si dice pessimista: chi non aveva sviluppato consapevolezza prima, difficile che adesso si riconverta. Sta tanto nella comunicazione, certo tocca ripetere le cose. Ed è strano, perché andando a trovare Franco De Battaglia, un’anima del giornalismo trentino e ambientalista da sempre, diceva la medesima cosa: tocca ripetere cose che sembravano assodate, poiché le generazioni cambiano. 

Adesso c’è una grande voglia di viaggiare tra le persone e molti si sono buttati sulla montagna che garantisce aria pura, distanziamento. Un richiamo fortissimo: call of the wild. Speriamo che tutto questo serva, che ci sia di lezione. 

In Egitto mentre studia un percorso facendosi aiutare dagli abitanti del posto

E la convivenza con gli animali, ad esempio, orsi e lupi?

Non sono un esperto di grandi predatori, ma so che l’Homo sapiens tra loro è il più letale. Sono iscritto al gruppo Facebook “Convivere con orsi e lupi si può?”. Si può solo se accettiamo l’idea di porre un limite alla nostra pervasività e prepotenza.

In pochi mesi animali e natura ci hanno insegnato che è possibile rimediare. Questo pianeta forse non lo dobbiamo dare per spacciato?

Possiamo trarre diverse deduzioni dall’osservazione di questo fenomeno. Da una parte questa rapida rigenerazione ha stupito tutti quanti, pensiamo ai veneziani che vedono i pesci nei canali o i delfini nel porto di Cagliari. Per cui molti han detto basterebbe poco per ritornare ad un modo di vita più compatibile. Per altri invece può essere quasi un alibi: beh sì stiamo inquinando ma la natura ha grandi capacità, non è poi così grave. Modi di vedere opposti. Ricordo benissimo che sollevato il regime di lockdown in Calabria, dove il fiume Sarno era diventato limpido, il giorno dopo era già nero. Ci sono rimasto malissimo, il discorso ambiente è passato in secondo piano. Ci vorrà tempo, la mentalità è rimasta quella biblica dell’andate e moltiplicatevi. La cultura del limite è recentissima, rispetto a millenni di programma cognitivo che ci ha condizionati a colonizzare, sfruttare. Per quello che a volte, quando leggo sui giornali “dobbiamo recuperare il senso del limite” mi dico: recuperare? Non lo abbiamo mai avuto: campa, sopravvivi, in qualsiasi modo, arraffa, tira avanti. 

Libertà e sicurezza ai tempi della pandemia 

Molto vera, anche se estrema è una frase che ho fotografato su un muro “Per la vostra sicurezza non avrete più libertà”. È un vecchio dibattito chiaramente, una questione etica antica. C’è sempre stata questa erosione delle libertà individuali in nome della sicurezza. Le persone sono spaventate e viviamo in questa che James Hillman ha chiamato la civiltà dell’airbag: dove dobbiamo essere salvi, garantirci da qualsiasi incidente. Viviamo nell’illusione dell’immortalità, invece ci siamo sempre ammalati e siamo sempre morti, quindi tutta questa paura di morire ora, io non la capisco molto. 

Molti anni fa, in Pakistan, a colloquio

Parliamo di mutazioni antropologiche dovute all’isolamento pandemico, cosa ne resterà? 

Per un po’ resterà la paura dell’altro che è l’aspetto che mi ha più inquietato cioè camminare sul marciapiede e vedere che la persona si distanza facendo un salto di lato. Anche perché eravamo arrivati ad un livello di inclusione e integrazione anche delle persone diverse per varie ragioni, pari diritti e opportunità, è tornata la vecchia paura dell’altro. Anche del vicino di casa. Voglio però essere ottimista, credo sia transitorio perché fa parte di quello spaventismo che è stato diffuso, una patologia psicologica che è destinata ad attenuarsi e poi a sparire. E qua torniamo alla differenza tra la previsione e l’auspicio.

Le epidemie ci sono sempre state. 

Dovrà intervenire un fenomeno di immunizzazione generale della specie, altri virus nasceranno, non so come li affronteremo. È difficile pensare che ci inventiamo un vaccino per ogni mutazione. Torneremo ad una nuova normalità. 

L’enfasi sull’approccio vaccinista e farmacologico ti solleva dalla responsabilità di prenderti carico della tua salute, tanto c’è la medicina. Ognuno di noi invece è responsabile della propria salute partendo dallo stile di vita, non è solo un discorso egoistico se tu ti ammali gravi sul sistema sanitario, sulla famiglia. Risolvere tutto farmacologicamente ti solleva invece, autoassolvendoti.

Qual è la qualità che apprezzi di più in una persona? 

La curiosità, intesa come avidità di conoscenza.

Il difetto che negli altri ti fa più paura? 

Mi fa specie chi non ha uno straccio di etica, il familismo amorale, l’egoismo.

Nelle insolite vesti di raccoglitore del frutto della palma da olio in Borneo

La tua idea di sostenibilità? 

Quando si parlava di sostenibilità, dopo il convegno di Rio de Janeiro, si parlava di un concetto olistico, dove stavano dentro tanti aspetti. Tre “E”: environment, ethic ed economy. Dopo si è cominciato a spacchettare questo concetto, con l’idea che una cosa, ad esempio, fosse sostenibile magari a livello ambientale ma non sociale. La mia idea quindi è ritornare a quel concetto olistico.

Quanto tempo riesce a dedicare alla famiglia? 

Le mie figlie abitano entrambe a Bologna, sono grandi e indipendenti: una è una tatuatrice ha 28 anni, l’altra di 32 si occupa di richiedenti asilo. Ogni tanto vengono in Trentino e ogni tanto riesco ad andare io. Con la mia ex moglie ho un ottimo rapporto anche se non ci vediamo praticamente mai. Con Giusi, la mia attuale compagna, condividiamo tutto: idee e tempo che è tanto, anche se è difficile trovare un confine tra questo ufficio e quel posto dove c’è la radio e balliamo, oppure quando si mangia insieme o il tempo che dedichiamo al cane adorato. Lavoro tantissimo, questo sì: scrivo, leggo, imparo e facendo quello che mi piace.

Sogni nel cassetto e/o progetti futuri?

Sicuramente viaggiare. Lo farò appena possibile, anche per lavoro. Ho tanta voglia di ripartire. Durante il lockdown avrei dovuto approfittare per scrivere ma… niente, non l’ho fatto, perché è stata una cosa strana per tutti: sembrava di avere tantissimo tempo ma lo sprecavi, non so per quale motivo. 

Sono abituato a cambiare e inventarmi cose nuove, quindi chissà quante ne devo vedere ancora!

Campus laurea 2018 all’ateneo di Lucca: il professor Canestrini con la sua studentessa Margherita Ricciardelli

Domande fisse

Il libro che sta leggendo?

Un comodino pieno! Un manuale di antropologia culturale, i fumetti Taipi di Melville e Zerocalcare, il libro Homo deus di Yuval Noah Harari e Il magico potere del digiuno e del digiuno intermittente. E poi ancora La città della gioia, ecc. ecc..

Il suo numero preferito?

Sette, un numero magico.

Il suo colore preferito?

Arancione.

Il piatto che ama di più?

Le melanzane alla griglia.

Il film del cuore?

Gattaca

La squadra di calcio che tifa?

Non tifo per le squadre di calcio. Però gioco a Ping pong.

L’automobile preferita?

Non le distinguo.

Il viaggio che non è ancora riuscito a fare?

Ho un po’ la fissa per le scimmie antropomorfe, visti gli oranghi in Borneo, toccherebbe ai gorilla, quindi Uganda o Ruanda.

Ha animali domestici?

Il “nonno” Ulisse, adottato con Giusi in un canile a Napoli, aveva già 15 anni. Lo abbiamo da tre anni, lo adoriamo.

Musica preferita?

Direi Led Zeppelin e poi ho la fissa dei chitarristi, suono fin da bambino, direi Narciso Yepes.

Se non avesse fatto quello che ha fatto, cosa avrebbe voluto fare? Io conto di riuscire a fare quello che voglio fare, sono giovane! Mi dispiace solo non riuscire a studiare tutto quello che vorrei. Da ragazzo volevo fare il danzatore.

La cosa che le fa più paura?

Da appassionato di fantascienza direi gli scenari distopici di controllo sociale, dell’informazione, della biologia. Ho timore che l’umanità prenda una brutta piega.

Un sogno notturno ricorrente?

Sogno spesso mia madre, avendola assistita negli ultimi anni, è morta a 95 anni. Sogno che lei salta sul trattore, scappa e devo correrle dietro o lei cammina su un muretto e io devo acchiapparla se per caso cade. Si vede che questo periodo di accudimento mi ha segnato, oltre ad insegnarmi molto.

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Pubblicato da Denise Fasanelli

Mamma insonne e sognatrice ad occhi aperti. Amo la carta, la fotografia e gli animali. Ho sempre bisogno di caffè. Non ho bisogno di un parrucchiere, d’altronde una cosa bella non è mai perfetta. Ho lavorato nel campo editoriale, della comunicazione e mi sono occupata di marketing per alcune aziende. Ho pubblicato un libro insieme all’ex ispettore Pippo Giordano: “La mia voce contro la mafia”(Coppola ed. 2013). Per lo stesso editore, ho partecipato, in memoria dei giudici Falcone e Borsellino, al libro “Vent’anni” (2012) con un racconto a due mani insieme all’ex giudice Carlo Palermo.