È la scuola o una trincea?

Tutti parlano della scuola. Salita alla ribalta nel periodo buio della prima tornata della pandemia per la chiusura tanto necessaria quanto inevitabile, l’istituzione dell’istruzione a tutti i gradi e a tutti i livelli è diventata argomento di discussione dai vertici della politica nazionale e locale all’occasionale conversatore della porta accanto. Aperte a tutti i costi o sospese per periodi limitati; in didattica sospesa tra la presenza e la distanza, con o senza rientri scaglionati per guariti e reduci del virus. Un panorama di cattedre e di banchi con un sottobosco carico di insidie sanitarie prima e burocratiche poi. Il concetto di solidarietà ed uguaglianza si arrende alla distanza ed al distanziamento: la legge del metro affossa contatti, abbracci, spintoni e sgambetti. È una scuola trincea, dove ognuno scruta l’altro dal suo baluardo difensivo. Uno contro uno, uno di fronte all’altro, uno contrapposto a tutti gli altri singoli. Un affastellarsi di regole continuamente rivoltabili e rigirabili, a seconda delle mutevoli situazioni.

Tutti parlano degli studenti. Vaccinati, non vaccinati, con sintomi e senza. Al posto dell’appello si dirama il bollettino medico, che rende conto di chi c’è, di chi non c’è, di chi c’è stato e di chi ci sarà. Non ci si chiede più “Come stai?” Tanto si sa cosa aveva e come può stare. Si rientra mesti e con tanto di certificazione, che va ad attestare lo stato di salute dell’utenza giovanile. La didattica – nel senso puro del termine – è scesa di livello, assumendo valore secondario rispetto all’emergenza sanitaria. La difficoltà dello studente “in salute” inizia alle ore 6.30 circa. La prima battaglia è prendere l’autobus o la corriera e trovare un posto che risponda ai requisiti richiesti dalla normativa. Poi l’arrivo in sede, con entrate disciplinate da piani, livelli, ordini alfabetici. Ricreazioni spesso in classe, per evitare contagi con gli altri. Mettono sotto il banco libri e quaderni e consumano il toast o la pizzetta sul tavolo di studio. Aspettano l’insegnante dell’ora successiva e scoprono che sono tutti assenti: 4 ore di supplenza. Vedono 2 film storici a mattinata e l’ultima ora si collegano in meet con il prof in quarantena. Arrivano a casa distrutti, consapevoli di aver fatto quello che dovevano fare, ma con la ipotizzata consapevolezza che quella non è la scuola che doveva condurli lungo il faticoso cammino dell’età adulta. Si aggiustano le mascherine che portano con fatica e con rassegnata convinzione. 

Pochi parlano degli insegnanti. Si aggirano sui corridoi con le mani screpolate per l’utilizzo selvaggio di gel disinfettante, trincerati dietro mascherine che non lasciano respiro né parola. Alle volte neanche ci si riconosce, bardati dietro questi fascianti dispositivi che appannano gli occhiali e la vista sul mondo reale. “Ah, ma sei tu?” “Sì, sono io, quella della terza C!” Entrano nelle aule e spalancano le finestre a dispetto di qualsiasi temperatura esterna, costantemente in balia di normative che spiazzano giorno dopo giorno, ora dopo ora. Sommersi da mail istituzionali e chat di gruppo che un momento dicono una cosa per poi confutare o rettificare in quello successivo. “Ma hai visto il nuovo comunicato?” “Quale? Quello di ieri sera?” “No, arrivato 10 minuti fa…” E in tutto questo guazzabuglio ministeriale ed organizzativo, solcano l’uscio delle aule diventate ormai troppo piccole ed aprono testi cartacei ed elettronici con misurata convinzione. Sperano che la giovane platea non faccia troppe domande e limiti l’innesco di discussioni, assolutamente difficoltose e difficili da gestire. Si cambia modo di lavorare: letture silenziose, commenti scritti, riflessioni introspettive. Che altro fare del resto? Le parole escono a sillabe, le frasi risuonano a intermittenza, i periodi sembrano accozzaglie poco informi di pensieri interpretati e forse (mal) capiti. Però poi vanno avanti lo stesso. A spiegare Manzoni, a rispondere alle domande, a chiarire un concetto. E ogni tanto – senza essere visti – si affacciano alla finestra dell’aula vuota e abbassano la mascherina, per respirare. Quell’aria che manca. ν

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Pubblicato da Tiziana Tomasini

Nata a Trento ma con radici che sanno di Carso e di mare. Una laurea in materie letterarie e la professione di insegnante alla scuola secondaria di primo grado. Oltre ai grandi della letteratura, cerca di trasmettere agli studenti il piacere della lettura. Giornalista pubblicista con la passione della scrittura, adora fare interviste, parlare delle sue esperienze e raccontare tutto quello che c’è intorno. Tre figli più che adolescenti le rendono la vita a volte impossibile, a volte estremamente divertente, senza mezze misure. Dipendente dalla sensazione euforica rilasciata dalle endorfine, ha la mania dello sport, con marcata predilezione per nuoto, corsa e palestra. Vorrebbe fare di più, ma le manca il tempo.