È chiamato, nel settore, “effetto Rashomon”: all’interno dello stesso film, due o più personaggi forniscono versioni diverse e talvolta contraddittorie della stessa vicenda, dello stesso evento, confondendo in un primo momento lo spettatore, ma conducendolo lentamente verso la verità. A dargli il nome, il lungometraggio del 1950 di Akira Kurosawa, Rashomon, appunto, che ha reso l’espediente internazionalmente celebre. Si tratta, infatti, di un mezzo narrativo da allora spesso usato dalla settima arte e che Hirokazu Kore’eda, con la sua ultima opera Monster – diventato in italiano L’innocenza – ripropone in maniera magistrale, componendo una storia delicata, sulla coesistenza di verità parziali, sull’incomprensione degli adulti nei confronti del mondo dei bambini. Nel suo film in concorso per la Palma d’Oro allo scorso Festival di Cannes e da poco nelle sale, il cineasta giapponese racconta dunque di una madre (impersonata da Sakura Ando, già a fianco del regista in Un affare di famiglia) e di suo figlio, Minato. Qui entra in gioco l’”effetto Rohomon”: l’espediente su cui tutta la trama si giocherà, infatti, sarà il dubbio che l’insegnante di Minato abbia preso di mira il ragazzo, insultandolo, bullizzandolo e mettendogli addirittura le mani addosso. È il primo terzo di L’innocenza, e di fronte alle proteste della madre preoccupata, la scuola reagisce prontamente ma in maniera strana (strana pure per il codice di comportamento giapponese). Cosa c’è sotto, allora? È davvero andata come ci appare ad un primo sguardo? Proseguendo con la storia, Kore’eda fornisce – lentamente – le risposte ai nostri dubbi, e lo fa cambiando punto di vista. Si passa così prima allo sguardo del maestro (nel secondo terzo), che ne ribalta diametralmente la visione che di lui avevamo fin qui costruito, così come la nostra posizione in merito ai suoi comportamenti; e infine, ancora, tocca alla vicenda narrata da Minato stesso (nell’ultima parte) completare il quadro. È solo procedendo, un tassello per volta, che riusciamo davvero a capire. È solo intrecciando un nodo per volta, che giungiamo al delicato ricamo finale.
E mentre proviamo a ricostruire il tutto – per giungere a quell’ultima emozionantissima scena, girata in una luce accecante (niente spoiler) – il regista giapponese ci spinge però a chiederci anche dell’altro: dal titolo originale, chi è il “mostro” in questa vicenda? È il maestro? È Minato? È il bambino disfunzionale che Minato sembra aver preso di mira da un certo punto in avanti? È il padre del suddetto bambino? È la società tutta, che il mondo dei bambini non è in grado di capirlo e penetrarlo, finendo per ridurlo alle proprie semplicistiche etichette e ai propri sterili paradigmi, edificando verità assolute su presupposti in realtà mai dichiarati o verificati?