Il silenzio della natura
Camminare in montagna significa coinvolgere tutti e cinque i sensi. Contemplare la bellezza del paesaggio impegna la mente, la tranquillizza e le infonde energia. Il silenzio invece ci riporta a noi stessi, alla parte più vera di noi, quel silenzio che, monaci, eremiti, mistici e anacoreti ricercavano abbandonando la vita di città per ritirarsi nei deserti d’Egitto, Palestina, Siria e avvicinarsi così maggiormente al Divino. Ma non è solo la montagna che ci riporta a noi stessi e ci fa stare nel qui ed ora, rigenerandoci; possiamo scegliere di camminare in un prato, in riva al mare, o nel parco cittadino e l’effetto sarà simile se il silenzio ci farà da compagno e con esso, la volontà di staccarci dalle distrazioni della vita per focalizzarci su ciò che ci circonda, percependolo, come se fosse la prima volta.
Potremmo forse dire di aver apprezzato le bellezze della natura, se la meta è ciò che ci interessa e il percorso per arrivarci diventa nebbia sui nostri passi? Persi ad ascoltare l’altro o noi stessi, la mente che mente e che ci procura stress, brancoliamo nel vuoto; se poi il cellulare ci prende la mano e ogni momento è buono per immortalare plurimi momenti di gloria, perderemmo irrimediabilmente la dimensione panica che la natura ci offre.
Abbracciamo quindi il silenzio e rallentiamo il passo; anche il respiro ne trarrà giovamento, assumendo un ritmo cadenzato con l’andatura. A questo punto, facciamoci stupire dalla bellezza silenziosa della natura; lasciamo correre la fantasia e immergiamoci nelle emozioni che il paesaggio ci procura. I benefici saranno molteplici: si ritrovano la calma e la pace interiori, si affina l’empatia, si stimola la creatività, si potenzia l’energia fisica; migliora anche la concentrazione. Per non parlare dei profumi balsamici delle piante che entrano in contatto direttamente con il sistema limbico, la parte più antica del nostro cervello, la sede dell’inconscio e delle emozioni, producendo sostanze chimiche come la serotonina, le endorfine, l’adrenalina, che agiscono sul nostro stato di benessere.
Il silenzio digitale
Viviamo in un mondo dominato dal rumore. Anche quando pensiamo di essere soli in casa e abbiamo spento la televisione, percepiamo dei rumori di sottofondo che ci provengono dall’esterno, come i bambini che giocano giù in cortile, un treno che passa, un aereo in volo. E oltre al traffico cittadino, sempre più assistiamo all’invadenza del suono anche dove non sarebbe richiesto, come i gonfiabili in montagna per divertire i bambini, le discoteche sulle piste da sci, gli auricolari per ascoltare la musica quando camminiamo per strada. Come se, il silenzio, potesse aprire squarci di vuoto e porci sull’abisso che abita in noi, perché stare con sé stessi, non è un compito facile e richiede una forte presa di responsabilità. Ma quando ciò avviene, modifica la percezione che abbiamo di noi stessi. È nel silenzio infatti che arrivano le energie vivificatrici che innescano il cambiamento; è nel silenzio che si creano nuove cellule celebrali e si attivano nuove connessioni neuronali. Secondo uno studio condotto da Imke Kirste della Duke University, basterebbero due ore al giorno di silenzio per sollecitare lo sviluppo delle cellule nell’ippocampo e mantenere così una buona memoria. Non solo, le grandi idee nascono nei momenti di pausa, quando ci concediamo di vivere il silenzio interiore. È dal vuoto che, per attrazione, si genera un pieno, un qualcosa che prima non c’era, ed ora c’è.
Con l’avvento del digitale e lo sviluppo della rete, le maglie del silenzio si sono ulteriormente ridotte. Internet ha cambiato radicalmente le nostre esistenze, mettendoci potenzialmente in contatto con tutti indipendentemente dal Paese di residenza. Ecco che il telefono, da semplice mezzo utilizzato esclusivamente per chiamare, è diventato un piccolo computer portatile in grado di svolgere molteplici funzioni: ecco che vengono in auto le app e i social network. Se da una parte ci sono stati degli indubbi vantaggi legati alla comodità del mezzo che permette con un clic, di svolgere da casa delle operazioni che prima necessitavano dello spostamento, dall’altra ha reso più asettiche le comunicazioni e creato delle dipendenze. Quanto tempo passiamo con lo smartphone in mano? È semplice curiosità di conoscere la vita degli altri? Un modo forse per distrarci dalla noia? Per non parlare delle notifiche che continuamente distraggono l’attenzione da ciò che facciamo, e dell’ansia che nasce dalla risposta che non arriva. Se quindi il cellulare può essere uno strumento utile, dall’altra non deve diventare il nostro compagno fedele di avventure. Sarà quindi buona norma utilizzare delle strategie che ci permettono di disintossicarci dall’uso indiscriminato dello smartphone e di calibrare il tempo passato in rete; tra queste utilizzare lo schermo con sfondo nero; disattivare le notifiche durante la giornata – almeno quando si lavora o si studia e si sta in compagnia; fare uso della modalità aereo di tanto in tanto; togliere i social network e le app dal telefono e tenerle solo sul computer – almeno per un periodo; non portare il telefono a letto e che non sia l’ultimo e il primo pensiero della giornata, ogni tanto lasciarlo anche a casa; tenere in agenda il tempo dedicato alla connessione; utilizzare infine delle app che fanno smettere di utilizzare il cellulare, come iChooseTo. Con questa applicazione è possibile creare dei messaggi personalizzati, quando si aprono determinate app, scoraggiandone l’utilizzo.
Nella Cultura e nella storia
Solitudine e silenzio sono necessarie premesse per contattare la propria anima e attingere alla saggezza, la vera conoscenza, e questo i monaci ben lo sapevano. Da sempre il silenzio ha accompagnato l’esistenza di monaci ed eremiti che decidevano di dedicare la loro vita a Dio. Il 529 d.C. è l’anno in cui il monaco Benedetto da Norcia, fonda l’abbazia di Montecassino, tra Lazio e Campania, diffondendo un nuovo tipo di monachesimo, di comunità, detto appunto benedettino, basato sulla formula Ora et labora, che troverà larga diffusione in tutta l’Europa medioevale. Ma già in Oriente nel III sec. d.C., un gruppo di monaci aveva scelto di vivere in solitudine ritirandosi in luoghi solitari, i cosiddetti eremiti (il termine deriva dal greco eremos, deserto), rinunciando alle comodità della vita mondana. Il fondatore fu l’egiziano Antonio, che visse nel deserto, per buona parte della sua lunga vita e che negli affreschi trova raffigurazione con un porcellino ai suoi piedi. Una forma particolare di monachesimo eremitico fu quella degli stiliti che stavano in cima ad alte colonne e vivevano delle elemosine dei passanti, dimostrando così nell’estrema privazione, la loro fede in Dio. Rispetto agli eremiti orientali, quelli occidentali si rifugiavano nella solitudine dei boschi, vivendo in capanne o costruendo degli eremi. Le nostre vallate ne ospitano numerosi, molti modellati sull’esempio di San Francesco.
Per i buddisti il silenzio non è assenza di parola, ma connessione con il tutto. È atto meditativo che permette di sentire ciò che si muove dentro di noi. Perché è così importante il silenzio nel buddismo? Perché il buddismo si precisa nella presenza, nella consapevolezza del qui ed ora. Se non siamo consapevoli, non seguiamo la via del buddismo. Conosciamo, sentiamo solo nel silenzio, soprattutto quello che l’anima ci racconta. Stando in silenzio, siamo di fronte a noi stessi, una sfida che ci spaventa per quello che non vogliamo vedere. Per Buddha il silenzio è la via maestra che permette di liberarsi dalla sofferenza; il non parlare è per lui il parlare. Nella prassi monastica buddista il nobile silenzio, è solitudine, rinuncia, distacco dal mondo, ma anche silenzio interiore di una mente che non parla, se non per ciò che è essenziale. Per gli Indiani d’America il silenzio diveniva pensoso e preparava alla notte. Un tempo per riflettere dopo le attività della giornata e creare la dimensione del sogno, dove i problemi avrebbero trovato una loro soluzione, scaturita dalla riflessione nel silenzio. Lo stato di sogno portava alla visione illimitata, trapassando il velo dell’incoscienza per raggiungere uno stato di conoscenza interiore; la visione della verità si dispiegava quindi a tutti i livelli.
Il potere del silenzio nella comunicazione
In origine ci fu il verbo e questo distinse l’uomo dalle altre creature. Ma la parola definisce e ci definisce e per questo dobbiamo stare attenti a come la utilizziamo; le nostre azioni infatti, sono parole in movimento. Con il nostro pensiero che si fa parola creiamo la nostra realtà. Oggi siamo invasi dalle parole; esse riempiono la comunicazione di detto e ridetto, come se il loro affastellarsi producesse più conoscenza e ci desse di conseguenza più potere; ma quale potere, se non quello dell’uno sull’altro? L’autenticità si crea nel tempo del distacco, del vuoto che c’è tra una parola e l’altra e che permette il tempo dell’ascolto. È lo spazio della relazione, dell’Io e del Tu, di buberiana memoria che, nel limite conosce l’altro e nell’altro, che gli fa da specchio, conosce sé stesso. Io sono ciò che tu mi mostri e se non ti ascolto, se non mi prendo il tempo di lasciar decantare la parola, non potrò mai vedermi – così come la sabbia del mare che depositandosi sul fondo dopo la tempesta, lascia emergere dalle acque cristalline i suoi tesori. Nell’equilibrio delle parti, che si fa danza, si dispiega l’atto comunicativo. In questo spazio assente di suoni, prendono forma i pensieri e si chiariscono le emozioni. È lo spazio della verità e dell’autenticità. La vita ha i propri ritmi fatti di espansione e contrazione: si respira e si espira, si nasce e si muore, c’è il giorno e c’è la notte; così c’è la parola e c’è il silenzio. Non possiamo non prenderne atto.
Nel momento in cui parlo, mi assumo la responsabilità di ciò che dico, ma anche nel silenzio comunico. Cosa comunico? Quanto peso hanno le parole non dette? A volte sono l’ultima possibilità che ci viene concessa quando ogni sforzo per farci capire è caduto nel vuoto; quando ogni nostra volontà di chiarimento non ha fatto presa sull’altro e allora non rimane che allontanarci, nel silenzio. Ma quel non detto ha un chiaro significato: non permetto all’altro di frantumare la mia integrità e nel distacco, chiedo rispetto. Ti rispetto e mi rispetto: questa è la regola. E sarà proprio quel vuoto a spostare l’asse dell’equilibrio, dando all’altro il tempo di percepire l’assenza e di riflettere. Il tempo del silenzio sarà così il tempo della trasformazione. Il tempo in cui la relazione o si rigenera e riparte su basi nuove, o finisce per sempre. Il tempo del silenzio sarà così il tempo della consapevolezza e della maturità; il tempo della gioia e della felicità.
C’è infine chi usa il silenzio come atto punitivo. Ma questa è un’altra storia che non vorremmo mai raccontare e che qualcuno utilizza. Siamo sul limite dell’umano, per quanto di bestiale c’è in ognuno di noi e che in taluni casi prende il sopravvento e ci fa deviare. Seneca dice: dum inter omines sumus, colamus umanitatem (“Mentre siamo tra gli uomini, coltiviamo l’umanità”). E in questo risiede la nostra grandezza, non scordiamocelo.
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I dieci tipi di silenzio dell’abate Dinouart
Lui era un monaco e scrittore francese del XVIII secolo, e li descrive nel libro “L’arte di tacere” (1767). Qui Dinouart esplora varie forme di silenzio, ognuna con il proprio significato e scopo. Si comincia con il Silenzio della Discrezione:
prudente, che si pratica per non rivelare segreti o informazioni riservate. È il silenzio che protegge la fiducia altrui e salvaguarda le confidenze ricevute. Seguono il Silenzio della Cortesia – che si osserva per rispetto e gentilezza verso gli altri, per non interrompere o disturbar – e il Silenzio della Prudenza, che si adotta per evitare situazioni pericolose o conflitti. Ma eccoci al Silenzio della Pazienza: apice dell’accettazione e della sopportazione delle difficoltà senza lamentarsi. Il Silenzio della Saggezza, invece, è del sapiente, che ascolta di più di quanto parli, comprendendo che le parole sono preziose e dovrebbero essere usate con parsimonia e saggezza. Il Silenzio della Concordia favorisce la pace e l’armonia, evitando discussioni e disaccordi inutili. Il Silenzio della Virtù si mantiene per evitare il vanto e l’ostentazione delle proprie qualità e successi. Che dire del Silenzio della Riflessione? Che è meditativo, in esso ci si ritira per contemplare, pensare e riflettere su se stessi e sul mondo. Non poteva mancare il Silenzio della Preghiera, devoto e spirituale, dedicato alla comunicazione interiore con il divino. E infine, il Silenzio della Morte, un silenzio assoluto, ma anche un momento di passaggio e di mistero.
Etimo: signum Harpocraticum
“È gesto iconografico che rappresenta il silenzio. Deriva dal culto di Arpocrate (o Harpocrates), la versione ellenistica del dio egiziano Horus, raffigurato spesso come un bambino che porta un dito alla bocca. Questo gesto, che sembra indicare il silenzio o il segreto, ha radici profonde nell’iconografia religiosa e culturale.
In antichità, il gesto di portare un dito alla bocca era interpretato come un invito al silenzio o alla discrezione. Nel contesto del culto di Arpocrate, il gesto simboleggiava anche il segreto mistico e la saggezza esoterica, indicando una conoscenza riservata a pochi e la necessità di custodire tale conoscenza con discrezione.