Festival di Sanremo: “fumi, raggi laser e scemi che si muovono”

Credo che tornare a guardare Sanremo dopo vent’anni sia come rivedere il mondo dopo un lungo viaggio interplanetario. La prima novità è l’assenza del pubblico, certo. La pandemia non lascia scampo nemmeno al festival dei fiori. Impressionano quegli applausi finti, come si usava in certi telefilm americani degli anni Settanta, Ottanta del secolo scorso, o nel Muppet Show. Impressiona ancor di più che gli artefatti battimani non facciano più parte del tacito accordo tra spettacolo e spettatore, il quale sa bene della loro artificiosità, ma preferisce non sentirselo dire. A Sanremo 2021, credo per la prima volta nella storia, gli applausi finti sono stati annunciati, così come si annuncia un valore aggiunto, un’importante novità. Ed è un tutto dire.

La seconda novità, i nomi. Dando una scorsa alla lista dei cantanti si nota come nome e cognome usati per identificarsi (e promuoversi) siano oramai roba da trogloditi. Non serve che li citi, in questi giorni sono sviscerati ampiamente su ogni sorta di media cartaceo e web, quest’anno perfino sulla Gazzetta dello Sport. Cosa c’è che non va, nel 2021, in un nome e un cognome? Scusatemi, ma proprio non riesco a capirlo.

Veniamo al tema dell’originalità. Esagero se scrivo che coreograficamente le esibizioni erano tutte uguali? Forse, ma lo faccio per chiarire meglio il concetto che sto per esprimere. Riprendo il discorso dell’assenza del pubblico. Può essere stata questa assenza a scatenare la fantasia di costumisti e autori? A farle raggiungere vette parossistiche mai toccate prima? Fino all’anno scorso, il pubblico in sala costituiva un deterrente di un certo peso. Ad esagerare si poteva sempre rischiare una salve di fischi e di urla che oltre a umiliare l’artista poteva influenzare in modo rilevante il pubblico a casa. Senza pubblico in sala si può osare. Per cosa? Per distinguersi dal novero dei partecipanti, certo. Ma per poter elevarsi, stare una spanna sopra i tuoi colleghi, o trasmetti genialità, sei un innovatore, e allora sei il nuovo David Bowie oppure devi “farlo ancora più strano”. Con il risultato che se tutti lo fanno, nessuno più lo è. Nessuno si eleva su qualcun altro. Tutto è di una colorata, piumata, scintillante, deprimente monotonia. Un magma rutilante ed indistinguibile.
Era il 1980, e Franco Battiato già prefigurava tutto ciò, cantando: “Non è colpa mia se esistono spettacoli con fumi e raggi laser, se le pedane sono piene di scemi che si muovono”.

E la musica, che dire di quella? Ne parliamo in coda e questo già dice tutto, considerato che dovrebbe stare in testa ad un articolo che parla di un “festival della canzone”. Uno striminzito “nota bene” tanto è diventata marginale nel contesto, seconda perfino a certi monologhi a sfondo sociale che oramai lasciano il tempo che trovano e non impressionano più nessuno. La musica mostra la corda. Di più, certifica la sua morte, a vantaggio di quello che qualcuno ha cominciato a chiamare Itpop. Un genere? uno stile? Non lo so. Quello che so è che non si erano mai sentite tante stonature, asincronie, aritmie. Siamo nell’epoca in cui con un computer – ma che dico computer – con l’App di un cellulare si può “comporre” quella che una volta si chiamava canzone. Non importa se sei stonato o non hai nessun senso del ritmo e della melodia. Ci sono software che lavorano per te e fanno miracoli. Ogni tipo di miracolo. Non quello di trasformarti in qualcosa di diverso da un dimenticabile millantatore.

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Pubblicato da Tina Ziglio

Concetta (Tina) Ziglio è nata sulle montagne in una notte di luna piena. Anziché ululare, scrive per diverse testate e recita in una sgangherata compagnia teatrale. Il suo ultimo libro è il discusso “Septizonium” (Aleppo Publishing, 2019).