Mentre Joker: Folie à Deux sta continuando a passare in sala, dividendo critica e pubblico per il suo essere un musical non-musical forse non del tutto riuscito, dietro i microfoni della pellicola firmata da Todd Phillips c’è anche un giovane trentino: Gabriele Pellicanò, nato a Rovereto nel 1992, che doppia i “panni” del viceprocuratore Harvey Dent. Con lui (a cui daremo del “tu”) abbiamo parlato della sua grande occasione, del misterioso fascino della professione di doppiatore e di molto altro.
Partiamo dall’attuale, da Joker: Folie à Deux. Cosa rappresenta per te?
Quello di Harvey Dent è, fino ad ora, il mio ruolo preferito tra quelli che ho ricoperto. Da un lato perché si tratta di un bel personaggio, di uno dei nemici più acerrimi e duraturi di Batman, ma dall’altro anche – ovviamente – perché si trova all’interno di un film importante, che ha fatto e sta facendo parlare molto di sé.
E come ci sei arrivato?
Sono stato chiamato a doppiarlo dal direttore di doppiaggio del film, che è lo stesso che ha curato anche il primo lungometraggio su Joker. Mi spiego meglio, per far comprendere anche come funziona il doppiaggio: una particolarità di questa professione è che quando inizi un prodotto, sai che turno avrai in sala di doppiaggio, ma non cosa farai. Quando tu arrivi, quindi, ti spiegano il personaggio di cui vestirai i panni e la sua psicologia, ti raccontano la trama e ti danno spunti su cui poter lavorare. Non esiste un copione. Il lavoro viene fatto direttamente in sala. A quel punto si comincia col doppiaggio vero e proprio: vedi la scena, divisa in “anelli”, cioè in piccoli passaggi, e la vai a doppiare. La particolarità è che devi riuscire ad essere fedele all’originale – anche per esempio nelle pause di respirazione – e allo stesso tempo a interpretare.
Prima di oggi, hai fatto anche delle serie, tra cui lo spin off di Bridgerton e Ted Lasso. Ci sono differenze nel modo di lavorare, tra cinema e serie tv?
Direi che la differenza principale sono i tempi di lavorazione. Nel cinema, di solito, puoi vedere una scena più volte, osservarla bene, prima di andare effettivamente a doppiarla. Questo perché devi fare meno battute in ogni turno. Per le serie, invece, si procede più spediti. In sintesi, insomma, potremmo dire che il lavoro legato al cinema è di solito più curato.
Oltre a quelli che ho citato, quale progetto senti vicino?
Terra Amara, la soap di Canale 5. Perché è stata la prima vera opportunità per avere una presenza costante nelle sale. Ho doppiato Cetin per quattro stagioni, e questo mi ha permesso di migliorare sempre più a livello tecnico, ma anche di essere in sala, di incontrare colleghi e direttori. In questa professione è fondamentale essere presente sul posto, farsi ricordare. Tra l’altro, ho anche poi avuto modo di conoscere Aras Senol, l’attore che impersona Cetin e oggi siamo amici.
Cosa ti ha portato al doppiaggio?
Nasce tutto da una passione, scoperta intorno ai 16-17 anni. Non solo riguardavo gli stessi film più e più volte, ripetendo le battute sopra le parole dell’attore, ma mi divertivo a doppiare dei video in chiave simpatica. Era una cosa che stimolava la mia creatività. Ho però capito che per diventare doppiatore di professione mi sarebbero servite più competenze, quindi ho iniziato a studiare dizione, da autodidatta, sui libri, e a lavorare in una radio, per sciogliermi al microfono. Inoltre ho iniziato un corso di recitazione, al termine del quale un insegnante mi ha notato e ha fatto il mio nome a una compagnia teatrale locale. Qui ho davvero capito di voler fare l’attore specializzato in doppiaggio. La vita però mi ha portato per un po’ lungo altre strade, fino al 2020, quando ho cominciato a sentire l’amaro in bocca per aver abbandonato tutto, e mi sono iscritto a un corso di doppiaggio vero e proprio. Anche qui, i docenti mi hanno notato e detto che, credendoci, avrei potuto riuscire.
E il primo lavoro?
Era una serie di piccoli ruoli in un documentario sul calcio. Però più di tutto ricordo l’effetto straniante di sentire nei corridoi voci che la mia mente associava a grandi attori hollywoodiani parlare di cose normalissime.
Ora vivi a Roma, ma sei nato a Rovereto. Che legami hai col Trentino? Credi si possa svolgere la tua professione, qui?
Personali. La mia famiglia vive ancora lì. Per quanto riguarda il lavoro, invece, ammetto che mi piacerebbe poter tornare a casa, poter gestire tutto da vicino, ma immagino che sia molto complicato e costoso costruire sale di doppiaggio che soddisfino i requisiti richiesti dai clienti e allo stesso tempo trovare doppiatori che vengano a lavorare in Trentino. Mi tocca dividermi, ma è un sacrificio che si fa…
Hai un sogno che è rimasto nel cassetto?
Non saprei. Ho imparato che la vita a volte sa stupirti più dei sogni. Per esempio, tornando a Joker, nel 2019 non ero nel mondo del doppiaggio, non facevo questo lavoro, e guardando il film ricordo di aver proprio pensato che sarebbe stato bello non aver mollato ed essere stato parte di un progetto simile. E oggi ci sono.
Che consiglio daresti quindi a chi volesse fare questo mestiere?
È una strada in salita, perché è un mondo in cui c’è chiusura rispetto a chi vuole approcciarvisi, anche per via dei molti accordi di non divulgazione (non posso per esempio dire nulla su ciò che sto facendo adesso). Serve quindi determinazione. Poi serve tanta formazione. E, aggiungo, un po’ di autocritica: credo che si possa sognare, ma con concretezza, e dunque si debba capire se è davvero qualcosa nelle proprie corde o un hobby.
Chiudiamo in leggerezza. Dicevi che da bambino guardavi i film decine di volte… Quello che sapevi a memoria?
Edward mani di forbice. Mi sono fatto odiare da mia zia per quante volte l’abbiamo riguardato.