Gianni Faustini: giornalista gentiluomo

Ero una ragazzina e avevo un grande sogno. Volevo raccontare la vita delle persone. Volevo raccontare la realtà. Volevo diventare una giornalista.
Bussai a una porta. Quella della redazione del “l’Adige” di Rovereto dove mi accolsero con sincera disponibilità.
Ricordo che il primo articolo che mi diedero riguardava Gustavo Modena. Ero terrorizzata (Piero Agostini, mio futuro direttore, mi sgriderebbe subito su quel “terrorizzata”. Mi direbbe: “Ma ti rendi conto del peso delle parole? Quando terrorizzata lo sei davvero cosa usi?”). Ok, usiamo termini più moderati: diciamo che ero disorientata. Chi era costui? Cosa aveva fatto? Internet? Non esisteva, ma esistevano i libri. Mi fiondai in Biblioteca per studiare, memorizzare, capire… poi corsi in redazione con nella testa decine e decine di pagine su Gustavo Modena.
Al tempo – so che può sembrare preistoria – ma scrissi a mano e poi battei a macchina quelle 20 o 30 righe – una miseria in termini di “peso” giornalistico, tipo un trafiletto – che mi erano state commissionate. Scrivevo a mano perchè non ero ancora capace di far seguire il mio pensiero con la macchina da scrivere. Velocità differenti. E poi trovavo conforto solo con la penna e la carta. Piano piano ho imparato. Merito dei miei colleghi, perchè quello era il tempo in cui nelle redazioni come la mia, i giovani godevano degli insegnamenti da parte dei colleghi con esperienza.
Quando a tutti fu chiaro che quello sarebbe stato il mio lavoro della vita, il caposervizio di Rovereto mi portò a conoscere la massima autorità del giornale: il direttore. Era Gianni Faustini. Non si rida, ma io tremavo. Nella mia famiglia mi avevano insegnato sin da piccola a rispettare l’autorità. E lui lo era. Sapevo che dopo la laurea a Pavia, era stato collaboratore della presidenza del Consiglio dei Ministri per la questione altoatesina, e poi aveva diretto tutti i giornali di lingua italiana del Trentino-Alto Adige, con una parentesi in RAI dove fu il primo caporedattore fin dal 1966. Entrai nel suo ufficio, lui sedeva dietro a quella che mi sembrò una imponente scrivania (oggi penso fosse solo normale). Faustini fu gentile, garbato, di misurate parole e mi augurò il meglio. Nella mente lo catalogai come un saggio gentiluomo e non mi sbagliai. All’epoca non potevo sapere che lui era prossimo a lasciare la direzione del giornale. Parliamo del 1983/1984. Il giornale stava vivendo traumatici passaggi di proprietà, dalla Dc a Comunione e Liberazione, fino all’arrivo di un galantuomo come Francesco Gelmi (eh sì, era un uomo che credeva nel valore della libera stampa e aveva i mezzi per coltivare questa sua passione, avercene come lui!) .
Poi le nostre strade presero direzioni diverse. Lui continuò a occuparsi di giornalismo ad alti livelli (basti citare la prima carta deontologica sui doveri del giornalista, ma anche tutti i suoi testi di insegnamento giornalistico rivolti ai giovani), io rimanevo nella mia valle. Ma ci incrociavamo nelle amicizie comuni: Luigino Mattei, Enrico Goio, Bruno Cagol, Piero Agostini… In fondo il nostro mondo è davvero piccolo.
Con Faustini altri incontri occasionali. Chiacchiere su come il giornalismo stava cambiando pelle. Il suo richiamo accorato e puntuale a valorizzare gli argomenti locali, a “tenere la schiena dritta” come disse Pertini, avere il senso della responsabilità di ciò che si scrive, continuare a credere in un giornalismo serio, pensante, di qualità. Tutte caratteristiche che ho letto negli interventi che lo hanno commemorato. Vorrei aggiungerne un’altra. Gianni Faustini era generoso.
Ora il lettore deve sapere che un giornalista nella sua vita professionale incontra moltissime persone, allaccia relazioni, scambi, entra nella “pelle” di una comunità. Faustini importante lo era eccome. Ma non lo faceva pesare mai. Quando scrissi i miei primi libri, lui mi chiamò subito. “Mi piacerebbe presentarlo, cosa dici di venire alla libreria Ancora di Trento?”.
Ovvio che ci andai e dalle sue domande compresi che il libro lo aveva letto sul serio. Guardate che non è scontato, molti si accontentano delle sintesi di recensioni in rete. Glielo dissi e lui mi guardò stupito: “Perchè non avrei dovuto leggerlo?”. “Non è da tutti”, risposi. E lui :“Beh, io non sono tutti.” Vero. Lui non era “tutti”, lui leggeva, lui si informava, lui credeva nel valore della cultura e nel peso specifico delle parole. Come finì? Con una bella intervista ed ero così felice che mi permisi di abbracciarlo e dargli un bacio. Ne fu sorpreso e reagì sorridendo.
Oggi quel bacio glielo rimando, con su attaccato un post it giallo: “Grazie Gianni per le parole di incoraggiamento rispetto al mio impegno con Assostampa: Abbiamo bisogno di donne, dicesti. Non lo dimentico. E grazie per quanto hai fatto per tutti noi, richiamandoci sempre al valore alto dell’informazione. Sei stato disponibile, signorile, generoso. Abbiamo un debito con te. Ti prometto, ti promettiamo, lo onoreremo!” ■

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Pubblicato da Patrizia Belli

Giornalista, scrittrice. La prima volta che scrissi un pensiero davvero e interamente mio accadde sui banchi del liceo. Prima di allora, i temi di italiano - confesso - erano scopiazzature, ma quella volta no. Ricordo l'ansia e l'intensità con cui attesi il giudizio e quando arrivò, si rivelò una profezia: “Buono, sebbene il gergo sia troppo giornalistico”. Fu in quel momento che capì che la scrittura sarebbe stata compagna di vita. Una passione prepotente, fedele, traditrice, mai domata. Un baricentro che morde il cuore e scava, scava rincorrendo l'inesprimibile. Poi, può succedere che una parola perduta e riacciuffata illumini il pensiero e allora è pura felicità. È lì, è nella scrittura, in lei che sa tutto di me, che mi trovate.