Giuseppe Ferrandi: “Non dimentichiamo le ferite di Trento”

Il quartiere della Portela. Nel riquadro, Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo storico del Trentino

“Una volta si sosteneva che fosse solamente una memoria retrospettiva quindi, si diceva, guardiamo per non dimenticare, punto. Adesso il guardare per non dimenticare non è sufficiente. Bisogna sì ricordare, ma bisogna utilizzare il ricordo, la memoria e la storia per costruirsi degli anticorpi che sgretolino l’idea che la guerra sia necessaria e che sia, come dire, utile a qualcosa.”

Giuseppe Ferrandi mi parla guardando in basso, pensieroso. Sembra preoccupato mentre camminiamo per il centro di Trento, in via Roma, in una ancora calda giornata di inizio settembre. Da oltre quindici anni, praticamente dalla sua nascita, Ferrandi è direttore della Fondazione Museo storico del Trentino, l’istituto di ricerca e divulgazione della storia e della memoria della città di Trento, del Trentino ma anche di tutto il Tirolo storico. Ferrandi è la persona giusta per ripensare al bombardamento di Trento del 2 settembre del 1943, a quei 200 morti, fuori dalla retorica delle celebrazioni. Per ragionare non di una ferita aperta, anzi praticamente rimarginata. Come ci dice Ferrandi, ricordare non può essere solo esercizio di accademia ma deve essere una memoria necessaria ed utile a qualcosa. Allora con lui proviamo a capire se può essere utile un salto nel passato passeggiando, oggi, per le strade del centro di Trento. 

L’appuntamento con il direttore del Museo Storico Trentino è davanti alla Chiesa di San Francesco Saverio, all’incrocio tra via Belenzani e via Roma. Ferrandi è una miniera di notizie su quei giorni del ’43 e senza smettere di parlare mi guida in una traversa di via Roma, in via San Giovanni. Una strada come tante nel centro della città, ora si dice zona Ztl ma noi siamo a piedi, nessun problema d’ingresso. Alzo lo sguardo attorno. I vecchi palazzi più o meno belli dell’inizio della via cedono il passo ad uno slargo con stabili anonimi in cemento, non particolarmente belli, anzi bruttini, architetture anni Cinquanta /Sessanta. Ferrandi rallenta e si ferma davanti ad un bassorilievo incastonato tra due portoni, nella facciata di uno di quei palazzi “nuovi” e me lo indica. È un’opera in rame alta due metri circa e larga tre con intense figure di uomini, donne, bambini coinvolte, a sinistra, nelle tragedie del bombardamento a destra nel duro lavoro della ricostruzione del dopoguerra. Questo monumento ha una sua dignità artistica ma è difficile notarlo nascosto da qualche auto parcheggiata e, soprattutto, affiancato da un isola ecologica per la raccolta rifiuti urbani che, paradossalmente, oggi attira molto più l’attenzione del cittadino di Trento rispetto a quel monumento praticamente dimenticato. 

Sosta davanti al monumento alle vittime del bombardamento del 2-9-1943

“Ferrandi, confesso con imbarazzo a me stesso e a lei che, pur essendo passato decine di volte in questa via, non me ne sono mai accorto”. Ferrandi annuisce e prende atto sconsolato.

“Capisco…non capita solo a lei. Questo bassorilievo, realizzato negli anni Sessanta, rappresenta le ricadute della guerra sulle vittime civili. È il primo tassello, come dire, di una immersione di un tema che per lungo tempo era stato censurato dalla memoria ufficiale e anche in parte dalla storiografia. Oggi, quindi, il nostro girare per la città, girare nel quartiere della Portela, che è stato l’oggetto del bombardamento anglo-americano nel 2 settembre 1943, significa anche recuperare una dimensione di racconto della città, in grande parte nascosta“.

È proprio quello che mi proponevo con questa passeggiata con il Direttore del Museo Storico Trentino. Riscoprire le ferite di quel giorno che il tempo, le ricostruzioni del dopo guerra, la morte dei testimoni, hanno lentamente e inevitabilmente, suturato. Ma il grande bassorilievo non è l’unica testimonianza di quei tragici fatti. Nella piazzetta, un po’ triste e anonima, che scopro dedicata per l’appunto al 2 settembre ’43, noto anche una lapide in marmo che sole e pioggia hanno reso quasi illeggibile. È una piccola targa commemorativa in ricordo di Gino Pancheri uno dei più noti pittori trentini del Novecento. Quello che, tra l’altro, realizzò il grande e bel mosaico, che tutti i trentini conoscono, sopra la Galleria dei legionari, davanti alla chiesa di San Pietro. La donna del Fascio, del 1937, con una citazione di Mussolini tratta dal discorso sulla proclamazione dell’Impero italiano e con il nome di Mussolini e il fascio scalpellati via dopo la fine del Regime. Pancheri abitava lì in una delle case di quel quartiere spazzato via e delle quali non c’è più traccia. Solo quella piccola lapide a ricordarcelo. Non sappiamo cosa accadde in quegli angosciosi momenti della mattina del 2 settembre. Di sicuro Pancheri, come tanti in quella via, non fece in tempo a ripararsi e fu colpito da una scheggia che gli si conficcò nella schiena. Morì dopo circa tre mesi di agonia nell’ospedale di S. Chiara a soli trentotto anni. Pochi addetti ai lavori ricordano Pancheri eppure Alfonso Gatto, uno dei maggiori poeti italiani del Novecento, volle ricordare il giovane artista con queste parole scritte sul marmo per chi, non distratto e frettoloso abbia voglia e tempo di leggerle, seppur quasi cancellate da pioggia e vento .

“Non la morte, non la vecchiezza ma solo la sua gioventù e gli occhi chiari con cui guardò il mondo, la sua terra, la città natale che qui lo ricorda e l’affida all’addolorata memoria del secolo.”

Il ponte di San Lorenzo

Addirittura Alfonso Gatto ci affida quella memoria, ma oggi chi ricorda Pancheri e soprattutto che qui c’era un antico quartiere con case, strade, gente?

“Sicuramente è una Trento dimenticata, ricordata solo da chi ha vissuto quegli eventi, ormai sempre meno; ricordata solo da chi ha una memoria storica un po’ più precisa. È vero anche una figura come Gino Pancheri, artista molto gettonato durante gli anni Quaranta è stato dimenticato. Eppure, basterebbe notare l’assetto di queste case. Infatti, se ci guardiamo qui intorno abbiamo prima soprattutto edifici di origine medievale o rinascimentale e dopo improvvisamente ti trovi dei blocchi diversi, che non sono legati al risanamento urbanistico da parte del fascismo del quartiere al Sasso, che fu realizzato negli anni Trenta prima della guerra. Sono proprio ricostruzioni avvenute negli anni ‘50 e negli anni ‘60. Il tessuto è nuovo, cambiato in un attimo dopo il bombardamento. Siamo proprio nel cuore della Portela e dobbiamo immaginare, appunto, una città completamente diversa. D’altronde questa piazzetta è vicina a Santa Maria Maggiore e Santa Maria Maggiore era il cuore di quello che è avvenuto il 2 settembre 1943.”

Ferrandi mi invita a seguirlo verso la piazza che raggiungiamo passando sotto ad un moderno attraversamento che collega due edifici anch’essi del dopoguerra.

Tutti palazzi, diciamo nuovi, ma nel 1943 cosa c’era qui?

“Qui c’era la Cassa Malati e la Cassa Malati è stato il luogo dove, probabilmente, c’è stata la più alta concentrazione di vittime. Perché? Perché c’erano i laboratori aperti, c’erano molte famiglie, molti ammalati, molti bisognosi. La cosa quasi raccapricciante è che la maggior parte di questi utenti della Cassa Malati sono morti non per l’esplosione diretta del bombardamento o il crollo dell’edificio, ma sono annegati, perché avevano trovato rifugio in una cantina e sono deceduti perché le condotte dell’acqua, a un certo punto, si sono rotte e hanno riempito gli scantinati. Le persone non sono riuscite ad uscire e sono annegate …E qui probabilmente c’era anche un asilo.”

Ferrandi si volta e mi indica un altro pezzo del palazzo, il volto contratto in una smorfia di raccapriccio e dolore al pensiero di una morte così atroce. Mentre lo ascolto difficile non pensare alle immagini che scorrono tutte le sere sui nostri televisori. Ospedali e scuole bombardate in Ucraina o in Medioriente.

Alzo lo sguardo su questo moderno edificio, alla sinistra della Chiesa di Santa Maria Maggiore, che ora ospita La Fondazione Franco De Marchi, la sua biblioteca. Se non lo sai non riesci ad immaginare che prima c’era qualcosa di veramente diverso in quella piazza. L’unica cosa che può sollevarti qualche interrogativo sono gli strani buchi, quasi una gruviera, che con un po’ di attenzione si notano su buona parte della fiancata sinistra della Basilica conciliare.

Devastazione attorno a Torre Vanga

“Ferrandi, oggi passando di qua l’unica cosa che potrebbe farmi pensare che qui è accaduto qualcosa sono questi grossi buchi nella parete di S. Maria Maggiore… che altrimenti non saprei spiegarmi”.

“Pochissimi li notano. Si, stiamo parlando delle ferite prodotte dall’esplosione, dalle granate e dagli effetti degli esplosivi. A Trento quel giorno vengono scaricate 200 tonnellate di bombe, un bombardamento a tappeto, che doveva colpire lo scalo Filzi, cioè il nodo ferroviario, però finirà per colpire tutta l’area cittadina adiacente alla stazione. La basilica fu sfiorata, venne solo danneggiata dalle schegge delle esplosioni, come si può vedere sulla parete, a differenza dell’altra basilica, quella di San Lorenzo, quella vicina alla stazione ferroviaria, che subì dei danni molto forti. Quindi abbiamo una specie di miracolo che riguardò Santa Maria Maggiore che fu risparmiata. A me però interessa dire che leggere queste ferite dovrebbe indurci ad allungare il nostro angolo visuale e a scorgere gli elementi di questa storia un po’ dimenticata.”

Ferrandi ha appena terminato di parlarmi quando l’aria viene riempita dal suono lancinante di una sirena di un allarme aereo. Per un attimo è come se fossimo precipitati dentro una macchina del tempo. Alziamo lo sguardo e annuiamo, abbiamo avuto la stessa sensazione lo stesso brivido anche se sappiamo benissimo di cosa si tratta. La sirena posta sulla Torre della Tromba, distante poche centinaia di metri che ogni giorno a mezzogiorno, anzi alle 11 e 57, suona come allora a ricordo di quel tragico giorno. Ma chi tra le giovani generazioni lo sa? Il nostro viaggio alla scoperta di queste ferite ignorate prosegue. Poche centinaia di metri lungo via della Prepositura, anche lei un susseguirsi di, permettetemelo di dire, brutti palazzi anni Sessanta, e giungiamo in piazza della Portela, all’ombra di Torre Vanga, quella che sembra, putroppo, l’unica vestigia dell’antico tessuto urbano sopravvissuto a tanta devastazione.

La lapide che ricorda il pittore Gino Pancheri

Piazza della Portela, anche qui, ovviamente, non c’è più niente di allora…

“È la piazzetta che dà il nome al quartiere che è stata la vittima del bombardamento. Qui dove c’è questo moderno edificio si trovava una trattoria, la trattoria alla Portela, dove sono morti in tanti. C’erano molti soldati della piazza di Trento che stavano mangiando insieme a molti operai. Insieme alla Cassa Malati sono i luoghi dove ci sono state più vittime, perché siamo a due passi dalla stazione.

Altra cosa che non avevo mai notato, sotto le fronde di questo grosso albero nello slargo pedonale, vicino alla strada, c’è un monumento… 

“Si è un monumento che riguarda tutti i caduti di tutte le guerre, Prima, Seconda guerra mondiale, indipendentemente dalle divise e dalle scelte e riguarda ovviamente anche le vittime civili, cioè caduti senza una divisa. Sono appunto gli effetti collaterali delle guerre che da allora sono sempre più guerre totali. Sempre più una guerra che non risparmia nessuno e non distingue tra coloro che hanno la divisa e coloro che non ce l’hanno.“

Ferrandi, mi tolga una curiosità. Suppongo che Trento, come tante città italiane, non subì solo questo bombardamento, eppure si ricorda solo il 2 settembre, perché?

“Si, è vero, Trento non fu colpita solo quel giorno. Fu solo l’inizio di una serie di bombardamenti. Da quel giorno si calcolano circa 400 allarmi aerei e una cinquantina di incursioni con l’obiettivo la città, di cui una particolarmente pesante per morti e distruzioni nel marzo del ‘44. Ma noi ricordiamo sempre quel 2 settembre perché a Trento quel giorno ci si accorge di essere in guerra. Prima la guerra era lontana e arrivava fin qui solo attraverso i racconti di chi tornava, dei reduci che dicevano di aver combattuto sui vari e drammatici fronti di guerra. Da quel giorno invece la guerra arriva in casa e la guerra restituisce la sua immagine impattante, brutale, non guardando sostanzialmente in faccia a nessuno. Dalla bambina di due anni, la più piccola vittima di quel primo bombardamento, alle donne, agli anziani, agli ammalati.”

Ferrandi e Pardini davanti al ponte di San Lorenzo, ricostruito nel dopoguerra

Il percorso alla ricerca delle ferite nascoste di quel bombardamento volge al termine. Camminando sul cavalcavia della stazione abbiamo raggiunto il ponte di San Lorenzo. Nessuno che lo sta attraversando, in auto o a piedi, forse sa che anche quel ponte è frutto di una ricostruzione post-bellica. 

Ferrandi, abbiamo visto che quel bombardamento ormai è un ricordo appannato nella memoria quotidiana. Camminando per strada abbiamo dovuto imparare a riconoscere i segni di quelle ferite. Io sono andato alla cerimonia al cimitero, il 2 settembre. C’erano le autorità, per dovere istituzionale, ma i cittadini si contavano sulle dita di due mani. Come fosse un capitolo chiuso che non ci riguarda. Eppure, stiamo vivendo momenti drammatici non lontano da qui. I bombardamenti quotidiani su abitazioni, scuole, ospedali, ponti, strade in Ucraina, a Gaza, in Israele. Decine di migliaia di morti civili

Ferrandi annuisce appoggiato sulla spalletta del lungo Adige fissando assorto qualcosa davanti a lui. Come se cercasse la risposta corretta a questa domanda, in fondo anche scontata.

“Che lezione possiamo trarre? Io credo che sia necessaria una differenza nel modo di commemorare e di ricordare il bombardamento del 2 settembre che abbiamo oggi rispetto a una ventina di anni fa, a una decina di anni fa. Come ho già ricordato, una volta si diceva che fosse solamente una memoria, si diceva guardiamo per non dimenticare, punto e basta. Adesso il guardare per non dimenticare non è sufficiente. Bisogna ricordare ma bisogna utilizzare il ricordo per costruire gli anticorpi che cancellino definitivamente l’idea che la guerra sia necessaria e che sia, come dire, utile a qualcosa. Credo che sia questo il passaggio fondamentale. Non solo, va contrastato con la forza della storia, ma anche con la capacità di rielaborarla, un concetto che il 2 settembre a Trento ci ricorda: l’estensione, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, degli effetti della guerra, le vittime civili ormai come regola fondamentale, anzi come essenza anche delle strategie militari. Lo vediamo molto chiaramente da due anni a questa parte nel conflitto Russo- Ucraino ma anche in Medio Oriente. Questo lo dobbiamo contrastare con forza se vogliamo veramente ricordare costruttivamente, e non solo perché va fatto, quel 2 settembre ‘43.”

Giuseppe Ferrandi deve tornare ai suoi impegni di storico, mi stringe la mano e si allontana in fretta ripercorrendo quel ponte che le bombe alleate distrussero ottantun anni fa. Io mi fermo a scrutare la corrente un po’ limacciosa dell’Adige poi alzo la testa e guardando il traffico che scorre sul ponte di San Lorenzo, frettoloso nella sua normalità. Un brivido mi percorre pensando a come tutto questo potrebbe essere spazzato via in un attimo, come fu distrutta per sempre la normalità della vita a Trento quella mattina di settembre del ‘43. Non dimentichiamolo mai, basta un attimo.

Trento, Galleria dei legionari trentini, con mosaico della donna del fascio di Gino Pancheri, 1937,  il nome Mussolini e il fascio sono cancellati

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Pubblicato da Paolo Pardini

(Pisa 1955) ha lavorato per trent’anni come giornalista e come inviato per tutte le principali testate della RAI. È stato conduttore del Tg3 e di numerosi programmi televisivi fino a ricoprire il ruolo di responsabile dei Tg3 regionali RAI a Trento, Firenze e Milano.