Gli Stati Uniti fra la “nuova democrazia” e la crisi del giornalismo

La nuova presidenza americana fin dai primi mesi ha preso decisioni importanti, nel segno della discontinuità: sul piano ambientale, riportando gli Usa all’interno della cornice degli accordi di Parigi sul clima e bloccando la costruzione dell’oleodotto Keystone; sul piano sanitario, irrobustendo la lotta contro il Covid e fermando il ritiro del Paese dall’Organizzazione mondiale della sanità; sul versante dell’immigrazione, revocando il blocco all’ingresso di persone provenienti da alcuni paesi a maggioranza musulmani e impegnandosi a favorire l’acquisizione della cittadinanza per undici milioni di persone oggi clandestine. Inoltre ha recentemente annunciato una stretta alla vendita delle armi, tema notoriamente spinosissimo. Intenzioni forti, anche sul piano simbolico, a cui si è sommata una politica estera molto aggressiva nei confronti di Cina e Russia, che chiama in causa l’Europa. Ciò non significa, però, che i problemi interni agli Stati Uniti (che spesso sono un po’ anche i nostri) si siano magicamente dissolti. Uno fra tutti: la crisi della stampa, e soprattutto della stampa locale. Dal 2004 al 2015, scrive Margaret Sullivan (Washington Post), nel libro Ghosting the News, si sono persi negli USA il 45% dei posti di lavoro giornalistici nelle redazioni, e hanno chiuso 1800 edicole e punti vendita di giornali e riviste. Contemporaneamente gli investimenti in pubblicità si sono spostati in maniera massiccia dai media “tradizionali” ai siti di annunci come Craigslist. L’assenza di un monitoraggio giornalistico continuo e accurato, sempre secondo Sullivan, ha avuto o sta avendo conseguenze non indifferenti sulle comunità locali via via interessate: ad esempio, può essere, se non la ragione principale, quantomeno una concausa della crescita di “elezioni di politici incriminati, cattiva gestione, da parte dei sovrintendenti scolastici, dei distretti loro affidati, casi di corruzione dei capi della polizia”. Dove viene meno l’informazione, si sostiene, soffrirebbe la tenuta stessa del vivere civile.

Il problema della progressiva riduzione delle local news è un problema meno noto e meno dibattuto di quello delle fake news, ma non meno importante. In generale, molta parte del pubblico semplicemente ignora che l’informazione è sempre più in difficoltà, per ragioni economiche. In fondo di comunicazione in giro ce n’è così tanta che spesso il cittadino fatica a percepire gli effetti della chiusura di questa o quella fonte. Il che è grave, fra l’altro perché non tutte le fonti sono uguali. Oppure, si pensa che le chiusure siano dovute a chissà quali manovre occulte.  

Il primo imputato della sparizione delle testate tradizionali è invece sotto gli occhi di tutti: internet. Negli ultimi 25 anni la rete ha abituato gli utenti ad accedere ad una enorme quantità di informazione gratuita, e a diventare a loro volta produttori di contenuti, cioè di foto, video, commenti, news. Ovviamente, però, una tastiera e uno schermo non fanno un giornalista, né sul piano delle capacità professionali né su quello – generalmente ignorato dal grande pubblico – della deontologia. 

Ci sono vie d’uscita? Ovviamente, la risposta alle difficoltà dei media non può venire da un puro e semplice ritorno al passato. Sullivan stessa dedica ampio spazio alle possibili risposte, ad esempio i siti di informazioni non-profit (che, per la verità, potrebbero essere visti come parte non solo della soluzione ma anche del problema). 

La pandemia, d’altro canto, ci ha messo del suo. Ma attenzione, sottolinea Megan Garber dalle pagine di The Atlantic: l’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha mostrato anche quanto sia importante disporre di informazione accurata e facilmente accessibile. Di quanto le news siano insomma non tanto o non solo un prodotto, ma un servizio, fatto alla comunità, alle istituzioni, e in definitiva alla democrazia. Se le cose stanno così, il loro futuro dovrebbe essere sentito come una responsabilità collettiva.

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Pubblicato da Marco Pontoni

Bolzanino di nascita, trentino d’adozione, cittadino del mondo per vocazione. Liceo classico, laurea in Scienze politiche, giornalista dai primi anni 90. Amori dichiarati: letteratura, viaggi, la vita interiore. Ha pubblicato il romanzo "Music Box" e la raccolta di racconti "Vengo via con te", ha vinto il Frontiere Grenzen ed è stato finalista al premio Calvino. Ma il meglio deve ancora venire.