I Pink Floyd sono ad Abbey Road, immersi nella registrazione del loro nuovo album. Hanno alle spalle il trionfo planetario di “The Dark Side of the Moon” e davanti un’ombra: quella di Syd Barrett. Il fondatore, il visionario. Il ragazzo che li ha spinti nel cuore della sperimentazione psichedelica e poi, a un tratto, si è perso, inghiottito dalla follia. Barrett, che con “The Piper at the Gates of Dawn” e “A Saucerful of Secrets” aveva plasmato l’identità della band, ora è un fantasma.
Dal 1968, quando i suoi comportamenti lo avevano reso ingestibile, i compagni lo avevano lasciato indietro (letteralmente: un giorno non andarono a prenderlo per un concerto, e fu la fine). Ma Syd rimase in qualche modo con loro, un’assenza che pesava, una ferita che non si chiudeva.
“Wish You Were Here”, il nuovo album, ruota attorno a questo vuoto. In studio, le canzoni nate in tour prendono forma, e il tema è uno solo: l’assenza. Barrett è ovunque e da nessuna parte.
Il 5 giugno 1975, durante la registrazione, in quello studio entra un uomo sconosciuto. Calvo, ingrassato, irriconoscibile. Si siede tra loro e dice: «Dove devo entrare con la chitarra?». Nessuno lo riconosce.
Passano alcuni minuti. Quindi Nick Mason si avvicina a Roger Waters e gli sussurra: «Hai capito chi è?». Roger, perplesso, risponde: «No». Mason conclude: «È Syd». A quel punto è il gelo. Il passato li travolge.
Gli chiedono cosa pensa del brano che stanno suonando, lui risponde: «È un po’ vecchio». E poi scompare, quella sera stessa, come un’ombra.
Non lo rivedranno mai più.