I cavalli di Patty

Difficile scegliere il miglior album di Patti Smith, soprattutto fra i primi 4, che precedettero il matrimonio e la lunga assenza dalle scene per gran parte degli anni 80. Horses è l’esordio e lo ha prodotto nientemeno che John Cale. Radio Ethiopia è forse quello musicalmente più bello, più elettrico, più rock. Easter conteneva il successo che la lanciò definitivamente, Because the Night, scritto per lei da Bruce Springsteen. E Wave era il disco della consacrazione, con un brano, Frederick, dedicato al marito Fred “Sonic” Smith, già nei seminali MC5 di Detroit, che si ballava anche in discoteca. Se avesse iniziato qualche anno prima Patti Smith sarebbe stata forse una reincarnazione di Janis Joplin. Ma Horses era perfetto per fare da ponte fra la “vecchia” stagione del rock, quella dei Rolling Stones, di Bob Dylan, di Lou Reed, e quella nuova, che stava prendendo forma: la stagione del punk e della new wave, sporca, fresca, selvaggia.

Nata a Chicago e cresciuta nel Jersey, approdata a New York per inseguire i suoi miti, che erano poi quelli della controcultura beat ma non solo (oltre agli amati Ginsberg e Burroughs, anche Rimbaud e Dylan Thomas, che come lei aveva alloggiato al Chelsea Hotel), Smith ha aggiunto profondità e consapevolezza al furore “grezzo” della scena musicale dell’epoca, che aveva il suo fulcro nel CBGB’S, il piccolo, scalcagnato locale sulla Bowery dove si esibivano Ramones, Talking Heads, Television e compagnia cantante. Con Patti Smith tutto diventò più artistico, maturo, denso.

L’apertura di Horses, pubblicato nel 1975, è affidata ad una cover, quella di Gloria dei Them di Van Morrison. Lei la fa precedere da un lungo recitato, che inizia così: “Gesù è morto per i peccati di qualcuno, ma non per i miei”. I suoni sono scarni, low-fi, la band non è composta da virtuosi, cosa che farà storcere il naso a qualche critico, succederà anche in occasione del famoso tour italiano del 1979, quello degli stadi e delle copertine dei settimanali, dal quale uscì un po’ traumatizzata. Ma l’intensità e la maturità sono già quelli di una star, benché dell’underground. Birdland è un capolavoro assoluto, un’improvvisazione poetica accompagnata a rispettosa distanza dalla chitarra di Lenny Kaye. Free money è il sogno in chiave R ‘n’ R di ogni artista povero, “soldi gratis”. E poi c’è la foto di copertina, scattata naturalmente dal compagno di quegli anni, Robert Mapplethorpe, lei con addosso una camicia comprata in uno store dell’Esercito della Salvezza, la giacca nera sulla spalla, alla Frank Sinatra, lo sguardo impavido. La strada era aperta.

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Pubblicato da Marco Pontoni

Bolzanino di nascita, trentino d’adozione, cittadino del mondo per vocazione. Liceo classico, laurea in Scienze politiche, giornalista dai primi anni 90. Amori dichiarati: letteratura, viaggi, la vita interiore. Ha pubblicato il romanzo "Music Box" e la raccolta di racconti "Vengo via con te", ha vinto il Frontiere Grenzen ed è stato finalista al premio Calvino. Ma il meglio deve ancora venire.