Tra i molteplici interessi che la mia mente e il mio corpo rincorre – soltanto apparentemente lontani – ci sono le piccole chiese medioevali. Ce n’è una, in particolare, che ricorrentemente mi piomba addosso ogni volta che transito per Bolzano diretto verso il burrascoso nord: la chiesa di San Martino. È lì, con il suo campanile appuntito e slanciato che sembra toccare il cielo, una scala pensata per far salire e scendere quei santi e diavoli che sono stati materializzati, nel corso dei secoli, sulle pareti delle chiese da sapienti mani di artisti e artigiani. Dopo tanto tempo sono riuscito ad accedervi, a superare la soglia, ad entrare in uno spettacolare e scenografico mondo altro. Mi ha condotto lì una delle mie manie: la cerca di quei “diavoletti” o “omini neri” che, nei dipinti, solitamente venivano colti mentre escono/fuggono dal corpo dell’uomo.
Che l’anima potesse essere raffigurata come un omino nero che, una volta morti, fuoriesca liberamente dalla cosiddetta “fontanella” dei bambini, ovvero la sommità del cranio, per volare verso l’alto, ben lo sapevano i pittori medioevali. In una rappresentazione della Crocefissione, dipinta sulla parete occidentale della chiesa di San Martino a Kampill (=Campiglio, piccolo campo) a Bolzano, per mano di un artista di cultura veronese, vediamo a destra del Cristo il buon ladrone, San Dismas, la cui anima/ombra nera s’intravede solinga volare verso il cielo uscendo dalla fontanella, là dove poco dopo San Michele la peserà, contendendola ai demoni. A sinistra del Cristo c’è Gestas, il ladrone cattivo, già morto, con la testa riversa. Un diavoletto nero s’incarica di estrarre dalla bocca l’anima del ladrone. L’anima nera era già destinata al Maligno.
L’anima nera è l’equivalente del greco Daimon, del genius romano. Che fosse nera deriva dal fatto che veniva fatta coincidere con lo spirito o ombra aeriforme, “umbra”. Se lo spirito della testa era il genius, si ha un’ulteriore ragione di ritenere che questo fosse ciò che sopravvive alla morte, ciò che trascorre nell’aldilà, e tale prerogativa risulta riservata alla testa. E non è un caso che nel neolitico si usasse, nelle tombe, proteggere e coprire con un tetto di pietra la testa ma non il corpo.
Ma di particolarità questa chiesa ne racchiude diverse. Sempre sulla navata sinistra si apre una piccola porta che s’affaccia, oggi come in passato, sulla strada un tempo percorsa dai pellegrini, la famosa Kunterweg, la via del commerciante Kunter. Sul muro interno, in basso, c’è un piccolo affresco raffigurante San Martino che taglia il mantello. Una figura alta non più di 40 cm, collocata in basso, a livello della strada: quando la chiesa era chiusa il pellegrino, per pregare uno dei santi protettori dei viandanti, non faceva altro che aprire dall’esterno una piccola finestrella e subito gli appariva l’affresco ridotto. Così come appariva il massiccio elemosiniere di pietra e ferro dove doveva essere lasciato un obolo, pena maledizioni varie. E poi, sull’arco santo, ci sono le vergini sagge e quelle stolte. Tra quest’ultime una, oltre che a tener in mano la lampada spenta della saggezza, con l’altra si tiene la testa reclinata, consapevole di aver combinato qualcosa di male. Sembra dire: povera me, questa volta l’ho fatta grossa.
Questa chiesa, un tempo arroccata su di uno spuntone di roccia, si trova ora schiacciata tra il roboante traffico dell’autostrada e quello della sottostante strada provinciale per il Brennero. Le autorità dicono che non ci sono parcheggi per i visitatori, che il luogo è pericoloso. Ma chi è fuori luogo qui sono le strade e non questa arcaica chiesa, la quale molto probabilmente, vista la dedicazione, esisteva già ai tempi dei Franchi. Il massiccio campanile alto 37,50 metri è una lancia tesa a difendere la chiesa dall’invadente rumore del traffico. Sono le auto che dovrebbero farsi da parte, farsi silenziose per rispettare ciò che l’uomo ha costruito e dipinto guardando verso l’alto.