I moralisti dicono di no agli altri, Maradona lo disse solo a se stesso

Dalla finestra guardo alcuni ragazzini che si passano un pallone, sulla piazza. Le prime ombre della sera già suggeriscono di tornare a casa. Un vento fastidioso prova a farli desistere quei mocciosi, ma tanta vitalità rende improbo il tentativo. Non c’è dpcm che tenga, con loro.

Nel frattempo mi sto chiedendo perché, proprio quando centinaia di morti di covid al giorno cominciavano quasi a non farmi più effetto, la morte di uno solo, un ex-calciatore, è riuscita a farmi luccicare gli occhi, stasera. Perché questo fatto si è preso tutta l’attenzione, facendo il vuoto attorno, nonostante il ruggito della pandemia? Per quale oscura ragione la scomparsa di un ex-atleta mi sconcerta così tanto? A che giova ricordare uno che ha smesso di giocare un quarto di secolo fa? E soprattutto perché mi ritrovo a giustificare i suoi sbagli rispetto a chi dice che era un drogato, un evasore fiscale, e che il calcio è solo una banda di viziati bambini malcresciuti che prendono a calci un pallone?

Sorrido, perché mi ricordano quelli che dopo la morte di Pier Paolo Pasolini dissero che era solo un pederasta e che si meritava la fine che aveva fatto. Ieri e oggi, quella del giudizio è una tentazione, ma per ergersi a giudice ci vogliono coraggio e presunzione. Occorre una grandissima considerazione di sé. O forse basta solo essere degli stupidi. Perché puntare il dito non è molto diverso dal puntare una pistola. Specialmente se nascosti dietro uno schermo, magari anonimo, e l’uomo che si sta additando è appena morto.

Ho cercato risposte nei pensieri del ragazzino che ero, quando ogni maledetta domenica “lui” – “isso” lo chiamano a Napoli – disegnava iperboli in un rettangolo verde. Quei movimenti erano pura poesia, la luce riprodotta su una tela, i capitoli di un manuale di istruzioni. Istruzioni per cosa? È presto detto: raggiungere il cuore della bellezza. La bellezza che ti tocca il cuore. Ecco cosa c’era nel gesto atletico, in quel tocco sublime di fronte al quale null’altro si poteva fare se non trasalire, lasciandosi scappare di bocca il nome della madonna, o della propria madre. O quello di Dio.

(Va bene, va bene, ma queste sono cose scritte sull’onda dell’emozione, sono d’accordo. Già, l’emozione. Ma è giusto di quella che stiamo parlando: donde viene? Come ha fatto la morte di questo 60enne sudamericano a surclassare il clamore della pandemia? Esattamente, cosa ha smosso qui in basso, vicino al diaframma? Quali organi sconosciuti? Corde di quale strumento?)

Forse se n’era già andato appena smesso di giocare, o forse no. Quel suo essere contro un certo pensiero dominante, contro i bacchettoni, continuava ad incidere nelle coscienze più attente, nonostante tutto il male che aveva iniziato a farsi. Infatti, mentre i moralisti del nuovo secolo continuavano a dirgli di no, lui lo stava dicendo ripetutamente a se stesso. Dietro un vizio c’è sempre un dolore. Autentico, ribelle e mai ipocrita. Forte e fragilissimo, indimenticabile Pibe de oro.

Che non fosse solo un calciatore, mi pare evidente. Era l’emblema di molte cose. Ma non era un cocainomane, così come Caravaggio non era un assassino o Baudelaire un puttaniere. Qualcuno, dopo la sua scomparsa, nel gennaio 2016, si è forse permesso di dire che David Bowie era un drogato?!

Il 25 novembre (lo stesso giorno di George Best e di Fidel Castro…) lui se n’è andato, portandosi dietro schiettezza, bellezza e fantasia, e il mondo è tornato ad essere il solito pianeta meschino di sempre, per di più sfiancato dalla lotta ad virus sconosciuto.

Ma con lui – “isso“ – sono definitivamente svaniti pure gli anni di chi lo vide giocare, emergere dalla miseria, combattere contro il pensiero unico e alla fine arrendersi alla propria fragilità. La giovinezza di chi a bocca aperta lo osservò da bordo campo. Se ci siamo commossi alla sua morte è anche perché abbiamo pensato ai nostri cari: nonni, padri, fratelli, amici con i quali condividemmo la magnificenza e che ora non sono più con noi.

Mi riaffaccio alla finestra. Anche i ragazzini se ne sono andati. I giovani che videro in lui la possibilità di un riscatto (del sud Italia, del sud del mondo, dei più deboli), quei mocciosi che fino a poco fa giocavano nella piazza, in barba ai divieti. Non c’è più nessuno. Niente più schiamazzi nell’aria. La notte incipiente. E solo il vento rimane, a spostare il pallone di qualche millimetro più in là.

Condividi l'articolo su:
Avatar photo

Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.