È passato quasi un anno dall’80esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, in cui, Fuori Concorso, Richard Linklater presentava l’ultimo film da lui firmato, e finalmente il suo Hit Man – Killer per caso arriva anche nelle nostre sale. Non si smentisce, del resto, il regista statunitense, che dopo il bellissimo Apollo 10 e mezzo (ancora disponibile in streaming su Netflix, per chi lo volesse recuperare) torna con una strana sorta di biopic, che è in verità molto più di questo: è un’indagine sul cinema stesso, un caleidoscopio di generi, un camaleontico mutare della narrazione.
Tutto parte da un articolo di Skip Hollandsworth pubblicato sulla rivista Texas Monthly, e letto dallo stesso Linklater, a proposito di un uomo normale e banale, dal nome normale e banale, Gary Johnson (qui impersonato da Glen Powell) la cui vita cambiò drasticamente: un tipo poco carismatico, che indossa abiti dai colori poco appariscenti, vive a New Orleans, insegna psicologia e filosofia all’università e lavora part time per la polizia, ma la cui banalità e tranquillità esistenziale prendono – tanto nella realtà quanto nel film – una piega inaspettata quando viene incaricato di sostituire un agente recentemente congedato nello spacciarsi per killer professionista. Gary diventa così Ron, un personaggio che indossa come una maschera ma che tuttavia non riesce a “vestire” fino in fondo: nel momento in cui a commissionargli un omicidio sarà una donna affascinante, (interpretata da Adria Arjona) tutte le carte magistralmente poste in tavola, suo malgrado, si mescoleranno e non resterà che domandarsi cosa sia davvero lecito e cosa no.
Basato (almeno nell’aspetto) sull’immaginario del sicario della hollywood degli anni Settanta – Ottanta, Gary Johnson incarna un ragionamento autoriale su quanto, effettivamente, il killer glaciale e spietato dei cult possa adattarsi alla realtà, e lo fa attraverso una preziosissima sequenza in vertiginoso montaggio di molte delle scene più celebri del cinema di genere. Andando oltre lo stereotipo, Linklater crea così piuttosto un personaggio mutevole, cangiante, alle prese con dubbi psicologici e morali, il cui cambiamento procede di pari passo con quello della narrazione stessa. Hit Man – Killer per caso finisce quindi per racchiudere, dentro e dietro la bizzarra storia di un uomo, un’abile “gioco” dei generi: una commedia, un film d’azione, un noir, un thriller, impreziosito tuttavia anche da momenti romantici e malinconici. Un film che, al di là di tutto, forse, è anche solo un altro riuscitissimo esempio targato Linklater di come fare cinema “leggero”, divertente, ma capace.
Un anti-eroe distaccato dal mondo. E da sé
Tra i film citati da Linklater in Hit Man – Killer per caso nella rapida carrellata, volta a ricordare e chiarire un immaginario di sicario spietato, freddo, indifferente, così spesso portato in scena da Hollywood, c’è anche The Accountant. Lungometraggio del 2016 diretto da Gavin O’Connor e con protagonista Ben Affleck, il film non fu particolarmente riuscito, ma giocava su una narrazione simile, ponendo al centro della vicenda Christian Wolff, un genio matematico che lavora come commercialista, ma che in realtà svolge un’attività di contabile per numerose organizzazioni criminali. A differenza del Gary di Powell, il Christian di Affleck tuttavia era un anti-eroe solitario, distaccato tanto dal mondo quanto dalle sue azioni; un uomo glaciale, così glaciale da risultare addirittura inespressivo.