Il dovere del non fare

La parola “vacanza” deriva dal latino “vacans”, che significa vuoto. In passato, il vuoto era considerato essenziale per la realizzazione umana. Oggi, invece, la vacanza è colma di impegni e attività, perdendo il suo significato originario. È fondamentale riscoprire
il piacere del “vacans”, apprezzando il non fare nulla e combattendo l’idea che il tempo vuoto debba essere riempito per forza,
così come esige, ogni santo giorno, la società

>La parola “vacanza” deriva dal latino vacans, cioè dal verbo vacare: svuotare, sgomberare. In generale, nell’antichità, l’abbondanza di compiti quotidiani, di impegni, di spostamenti e di prestazioni, cioè il “tempo pieno” non era molto apprezzato, anzi lo si rifuggiva come un brutto male.
Il nostrano poeta Orazio, che ricordiamo per la sua costante ricerca di equilibrio tra otium e negotium – fare e non fare – amava potersene stare al sicuro nella sua dimora, mentre là fuori i mali e i crucci del mondo funestavano gli altri. Mica scemo.
Sono tantissime le tradizioni, di ogni angolo del pianeta, che celebrano e cercano il vuoto-vacans,  come momento di massima realizzazione della più profonda natura umana. Lo zen giapponese è forse il più conosciuto amante del vuoto, e d’altronde nella meditazione zen si deve fissare un muro di mattoni seduti sullo zafu per ore come via per accedere a un più alto livello di conoscenza.
E riflettendo ancora un po’ sul vuoto, scopriamo che gli atomi che compongono il nostro corpo, il nostro mondo e tutto l’universo, sono vuoti al 90%. Il vacans è, in un certo senso, l’essenza del reale. Eppure, l’amore per il vuoto è qualcosa che si è perso ad un certo punto della nostra evoluzione. Persino la “vacanza-vacans” ha adottato nel tempo un significato esattamente opposto a quello che era in origine. Il vuoto deve essere riempito: di viaggi, di visite, di cibi, di bevande, di esperienze, di code, di caldo, di benzina, di sagre, di musei di cui non ci ricorderemo nulla, di sprechi, di intrattenimenti, di foto e ancora foto, di liste di cose da non perdere, perché i “content-creator” che come fantasmi ormai popolano i nostri mondi immaginari dei social, ci hanno fatto la lista: dieci cose da non perdere se sei a Bangkok.
Dieci cose da fare se sei a New York. Dieci mete da non perdere se sei qui e lì. E noi, attanagliati dalle paure contemporanee di sembrare poveri da una parte e di perderci qualcosa dall’altra (chiamata anche FOMO, Fear Of Missing Out), ci andiamo. Lo facciamo. E se non lo facciamo, rosichiamo. Comunque riempiamo il tempo come fosse un otre.
E la vacanza diventa una “riempienza”.
Come una bella copia delle nostre giornate di non vacanza. In entrambi i casi, non si può mai stare a non fare assolutamente nulla, perché altrimenti ti senti in colpa.
Cosa fai in vacanza? Ti chiedono. “Niente”, rispondi, con un senso di vergogna. Poi cominci a giustificarti, per non sembrare anormale: ristrutturo casa. Ho parenti dall’Australia in visita. Non so dove lasciare il cane. Devo assistere i miei anziani genitori. E via dicendo.
Assurdo eh? Ma questo è, purtroppo, un problema contemporaneo. Per centinaia di migliaia di anni siamo rimasti seduti per terra a non fare assolutamente nulla e pure a gambe incrociate, se non addirittura nella posizione che oggi in palestra si chiama Squat. Un dolore unico. Raccomandata da tutti i personal trainer del mondo. Ecco, lo squat era, in un certo senso, espressione di vacanza, cioè di vuoto. Stavi in squat li a guardarti intorno. Nella terra arsa dell’Africa Occidentale. Davanti al lago Titicaca. Nella tundra. Vicino alle grotte di Altamira.
Non pensavate mica che homo sapiens fosse una diretta evoluzione di homo affarensis (poi divenuto il personaggio di Homo Faber), che passava 8 ore a lavorare pietre e utensili per regalarci il meraviglioso mondo evoluto in cui viviamo oggi, vero? Forse è una favola che ci hanno raccontato per convincerci ad andare tutti i santi giorni sul luogo di lavoro, come espressione della nostra profonda natura umana, perché il lavoro rende liberi e perché la nostra è una repubblica fondata sul lavoro, tutte conseguenze del mito fondante della nostra specie che ci vuole “homo laborans” perché discendenti di figure mitiche come homo affarensis, homo habilis e pure homo faber.

> Ma non è così che è andata, suvvia. E non ci vuole chissà che per capirlo. Basta che guardiate i nostri cugini primati o gli altri mammiferi, tipo il vostro cane e il vostro gatto. Nessuno, ripeto, nessuno di loro potrà mai essere definito “laborioso”. Se possono, passano una gran quantità del proprio tempo a non fare assolutamente niente, cioè in vacans. E sotto sotto li invidiamo pure. Forse le formiche e le api potrebbero sembrare laboriose, ma sono insetti. A meno di non volerci paragonare a insetti, siamo gli unici su tutto il pianeta che dobbiamo sembrare quello che non siamo: una specie laboriosa.
Eppure la pigrizia (questo sì è scientificamente provato) è insita nella nostra natura. Il nostro cervello, tanto decantato da noi stessi, usa il più delle volte (tranne in rarissimi casi) le scorciatoie, i meccanismi ripetitivi, gli stereotipi, per pura pigrizia. Siamo in poche parole programmati per fare il minor sforzo possibile, sempre. E allora smettiamola con questa storia della laboriosità.

Però spingiamoci ancora oltre: smettiamola con questa storia di dover riempire il tempo per sembrare ciò che non siamo, cioè sempre impegnati, anche in vacans. Negli ultimi decenni, alla domanda “come stai” bisogna rispondere “sono stanca”, altrimenti non sei nessuno. Alla domanda “ci vediamo?” bisogna rispondere “non ho tempo”, altrimenti sei un paria, con un sacco di tempo da perdere.
In queste distorte e assurde narrazioni in cui ci muoviamo quotidianamente, l’idea di vacanza fa capolino non come momento per svuotare il pieno, ma per riempire ulteriormente lo stracolmo.
Ora, da antropologa (qual io sono e mi sento) chiedo a voi tutti: ma perché tutto questo dolore, caro homo sapiens? Cosa è andato storto mentre vivevi quella che uno dei nostri rappresentanti ha chiamato “evoluzione della specie”? Forse abbiamo dovuto vendere il nostro tempo al mercato con la M maiuscola, come se ne avessimo troppo a disposizione e non valesse la pena tenerselo per sé? Forse ci siamo fatti abbindolare da chi del nostro tempo pieno ha fatto una miniera d’oro? Così non siamo più abituati al vuoto-vacans, anzi: ci fa paura. Ma possiamo trovare il coraggio di tornare ad essere noi stessi: pigri, sempre in vacans-vacanza e felici.

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Pubblicato da Sara Hejazi

Cittadina italiana e iraniana, ha conseguito un dottorato di ricerca in Antropologia culturale ed Epistemologia della Complessità. Accademica, scrittrice, giornalista, collabora con molte università e fondazioni italiane oltre a scrivere su diverse testate. Ha pubblicato i saggi L’Iran s-velato. Antropologia dell’intreccio tra identità e velo (2008), L’altro islamico. Leggere l’Islam in Occidente (2009) e La fine del sesso? Relazioni e legami nell’era digitale (2017). Il suo ultimo libro è “Il senso della Specie” (Il Margine 2021).