Il fantasma di Moro

È il fantasma del Natale Passato, l’Aldo Moro di “Esterno Notte”. Se infatti Marco Bellocchio riparte dalla vicenda del suo precedente “Buongiorno, notte” e riparte dai fatti noti e arcinoti del rapimento del presidente della DC il 16 marzo 1978, è sugli effetti dello stesso sugli altri, che la serie si sofferma.

Sei episodi, trasformati in un colossale film di 300 minuti, presentato in anteprima a Cannes 75 e a sua volta suddiviso in due parti (la seconda delle quali in sala in questi giorni) per l’uscita cinematografica. Un’opera che nasce ibrida nella forma, fondendo operazioni alla Bergman di “Scene da un matrimonio” e alla Sorrentino di “Loro”, ma che è ibrida anche e soprattutto nel contenuto. La Storia è infatti allora solo un punto di partenza; il conosciuto, ciò che è rintracciabile nei libri, solo la superficie. Dove Bellocchio sceglie di costruire e creare, è al di là, a partire da una sola domanda: che effetti hanno avuto i 55 giorni di prigionia di Moro su chi stava all’esterno (di rimando al titolo)? Il quadro che ne nasce è uno spaccato tanto dettagliato quanto umano. Umano è Moro che chiede alla figlia di lavarsi le mani e che controlla compulsivamente che il gas in cucina sia chiuso per bene, e umane sono le manie, i vizi, le ossessioni di chi gli sta attorno, o di chi sta attorno alla sua assenza. C’è Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi) con i suoi pesanti sensi di colpa, con la moglie che lo disprezza, con le emicranie che lo costringono in uno stanzino buio; c’è Giulio Andreotti (Fabrizio Contri) con la sua ossessione per il cibo e per i dolci; ci sono il Papa Pio VI (Toni Servillo), la moglie Eleonora Moro (Margherita Buy) e i grotteschi brigatisti. Punti di vista differenti, da cui il regista osserva sì l’accaduto, ma che utilizza soprattutto come portavoce di un racconto polifonico di fatti ignoti, di supposizioni, di sentimenti e vissuti che non possono – e qui sta la forza del cinema – essere confutati ma che hanno una ragion d’essere, che raccontano dei “personaggi umani”, delle possibili reazioni. È quando Moro non c’è, allora, che si aprono le scene migliori della serie-film: quando Moro è assenza, è fantasma capace di mettere di fronte ai propri vissuti, alle proprie scelte più o meno etiche; quando la psoriasi dovuta allo stress di Cossiga diventa shakesperianamente un’onta sulle mani che Bellocchio – e di conseguenza lo spettatore – intuisce ma non conosce. Una presenza-assenza che si fa, qua e là, reale spettro, come nel momento in cui Pio VI, guardando la Via Crucis in tv, rivede il presidente della DC trascinare la croce.

“Esterno notte” non fa sconti a nessuno, è insomma una dura e dissacrante visione del contesto degli Anni di Piombo, che poggia le basi sul reale e su materiale d’archivio, per dar vita ad un ritratto quasi psicanalitico di persone disturbate, irrisolte, mediocri. L’opera magistrale di un regista che, ancora oggi a 82 anni, regala un prodotto prima di tutto bello per gli occhi.

Per Cristo il sud è una tappa obbligata

“Esterno Notte”, Aldo Moro ascolta la radio: sono appena iniziate le riprese di “Cristo si è fermato a Eboli”, il film in due versioni, una televisiva e una cinematografica, tratto dal romanzo di Carlo Levi. Si annuncia il cast, la regia di Francesco Rosi, la parte principale assegnata a Gian Maria Volonté. Il lungometraggio uscirà poi nel ‘79, con première a Cannes. È quasi un gioco di specchi, un richiamo allo stesso prodotto di Bellocchio. È del resto la storia di un altro spaccato di quegli anni, la questione meridionale, l’assenza di progresso industriale in un Sud Italia povero, ancestrale, rurale. Un film forse un po’ lirico e a tratti lento, spesso dimenticato, così come lo stesso Rosi, di frequente considerato padre di una filmografia di serie B (di certo, ad esempio, “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, sapeva trattare temi affini con più potenza).

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Pubblicato da Katia Dell'Eva

Laureata in Arti dello spettacolo prima, e in Giornalismo poi, nel quotidiano si destreggia tra cronaca e comunicazione, sognando d’indossare un Fedora col cartellino “Press” come nelle vecchie pellicole. Ogni volta in cui è possibile, fugge a fantasticare, piangere e ridere nel buio di una sala cinematografica. Spassionati amori: Marcello Mastroianni, la new wave romena e i blockbuster anni ‘80.