Quante volte abbiamo sentito parlare, negli ultimi anni, di statue abbattute, di monumenti vandalizzati, di istanze per la modifica dei programmi scolastici o dei nomi delle vie, dall’Europa agli Stati Uniti? Insomma, di cancel culture, o cultura della cancellazione? Cancellazione di quei simboli visibili e ingombranti di un passato – coloniale, razzista, schiavista, totalitarista – in cui non ci riconosciamo più. Da che cosa deriva ciò? Deriva dalle trasformazioni della memoria storica. Da come cioè il passato viene percepito e rappresentato nel presente. Il passato, diceva Milan Kundera ne La vita è altrove, non è compiuto e immutabile solo perché è passato: al contrario, “il suo abito è fatto di taffetà cangiante, e ogni volta che ci voltiamo a guardarlo lo vediamo con colori diversi”. Ed è una questione di memoria.
La memoria è un necessario complemento alla storia, se vogliamo mettere a fuoco un quadro storico che renda conto non tanto e non solo di tempi e spazi lontani, in una dimensione del tutto separata rispetto all’oggi, ma che si agganci al presente. Siamo abituati a pensare alla memoria come a qualcosa che si riferisce al passato. Non è così: la memoria, secondo una formulazione spesso ripetuta, è il passato nel presente. E a differenza della storia, che si occupa del passato nel passato, che è uno, è finito e irripetibile, e rispetto a noi è lontano e alieno (“the past is a foreign country” scriveva David Lowenthal, il fondatore degli studi sul patrimonio culturale), la memoria invece è inesauribile, infinita. È mutevole, è caleidoscopica: viaggia nel tempo e nello spazio, cambia assieme alle esigenze di senso, di riconoscimento, della comunità di riferimento. Ed è plurale: memorie diverse degli stessi eventi possono abbracciarsi ma anche confliggere tra loro, entrare in competizione. La memoria è sguardo, anzi sguardi, sul passato.
Tanto più che la memoria non è prerogativa solo dei singoli, ma anche dei gruppi: con la differenza che, come diceva il compianto Jan Assmann (1938-2024), padre degli studi sulla memoria culturale, al posto dei neuroni che stanno alla base della memoria individuale, alla base della memoria collettiva troviamo la cultura. La cultura come fondamento della memoria dei gruppi. I cosiddetti memory studies oggi studiano proprio questo: l’interazione tra passato e presente in contesti socio-culturali. Non si tratta di una nuova disciplina, bensì di un campo di studi letteralmente inter- e multi-disciplinare: attingendo a discipline tradizionali come la storia, la sociologia, la letteratura, le scienze politiche, la psicologia e l’antropologia, gli studi sulla memoria hanno l’obiettivo di analizzare e comprendere le modalità e le forme con cui i gruppi umani, nei tempi e negli spazi più diversi, ricordano, raccontano e trasmettono il loro passato.
Sviluppatisi a partire dagli anni ’80, i memory studies conoscono oggi una graduale e crescente istituzionalizzazione, in Europa ma anche in Italia. Era il 2020 quando sono stati introdotti i primi corsi di memory studies al Dipartimento di Lettere a Trento, ed il 2022 quando, assieme al Dipartimento di Sociologia, è stato costituito il primo laboratorio sui memory studies nelle università italiane (il LIMS – Laboratorio Interdipartimentale Memoria e Società). E lo scorso agosto è stata organizzata la prima summer school sui memory studies in Italia. Una settimana di formazione intensiva, con lezioni, dibattiti e attività sul territorio, in cui si è riflettuto e discusso sulla memoria con cognizione, competenza e passione, senza gerarchie, senza confini tra le lingue e le culture. Vi hanno partecipato 25 ragazze e ragazzi da ogni angolo di mondo, da Trento, Milano e Bologna, ma anche dal Brasile e dalla California, dalla Georgia all’Ucraina, dalla Grecia all’Olanda, cui si sono uniti per alcuni giorni anche una quarantina di studiosi (tra i quali molti ‘big’) di provenienza altrettanto internazionale, da Charlottesville all’Estonia, dal Canada al Portogallo.
Tra le attività sul territorio, un’interessante visita guidata al Museo Storico Italiano della guerra e alla Campana dei Caduti a Rovereto. Con un’attenzione particolare non tanto agli aspetti strettamente militari (armi, uniformi, documenti ufficiali), ma alla storia umana della guerra: la vita in trincea, la vita al fronte. La cucina mobile per cucinare il solo e unico pasto al giorno, l’impianto radiologico da campo per individuare le schegge sottopelle da rimuovere. Carta e penna per scrivere lettere e diari, e lasciare traccia di sé. Il gruppo è stato poi in visita alla Campana: realizzata con il bronzo fuso dei cannoni, ogni sera diffonde i suoi 100 rintocchi, anelito universale di pace.
Passando dalla prima alla seconda guerra mondiale, un’altra attività sul territorio si è svolta a Bolzano, dove Hannes Obermair, ricercatore all’istituto Eurac, ha condotto il gruppo attraverso le architetture fasciste della città. Anziché essere abbattute o vandalizzate, esse sono state riconvertite e rifunzionalizzate, rinnovate cioè nel loro utilizzo e significato grazie ad alcuni interventi voluti dall’amministrazione provinciale e commissionati ad un gruppo di storici locali (tra cui lo stesso Obermair). L’ex casa Littoria ha subito un intervento non invasivo di risemantizzazione, grazie all’aggiunta di una citazione di Hannah Arendt “Nessuno ha il diritto di obbedire” che scorre luminosa, in tre lingue (italiano, tedesco e ladino), sopra al fregio sottostante, il celebre ‘bassorilievo Piffrader’ raffigurante Mussolini a cavallo, accompagnato dal motto fascista ‘Credere obbedire combattere’. Un’analoga modalità di contestazione e rinnovamento si osserva nel caso del Monumento alla Vittoria, eretto a celebrazione della vittoria nella prima guerra mondiale tra il 1926 e il 1928. Nell’ampio locale sotterraneo, Obermair e colleghi hanno ideato un percorso espositivo permanente (“BZ ’18-‘45’. Un monumento, una città, due dittature”), che racconta sia la storia del monumento sia la storia della città tra le due guerre mondiali, con le due dittature fascista (1922-1943) e nazionalsocialista (1943-1945). Un monumento fascista puramente celebrativo è stato trasformato in occasione di conoscenza critica e dialogo consapevole con il passato, al fine di superarne il potenziale divisivo: “La commissione ritiene che un appropriato e consapevole lavoro di contestualizzazione, fortemente ancorato al dibattito storiografico più aggiornato, possa finalmente consentire di superare i contrasti originati dalla presenza di un simbolo politico-ideologico del ‘secolo degli estremi’” (citazione dal documento ufficiale di presentazione del progetto scientifico all’amministrazione pubblica, disponibile online sul sito della mostra). E nella cripta citazioni letterarie famose, da Hannah Arendt a Bertold Brecht, scorrono anch’esse luminose e in più lingue sopra le iscrizioni sottostanti che riportano invece, ad uso e consumo ideologico, stralci letterari famosi, a partire dalla massima oraziana ‘dulce et decorum est pro patria mori’, slogan caro al mito fascista della morte per la patria.
La stessa sede di Eurac, centro di ricerca multi-disciplinare e all’avanguardia, nei pressi di ponte Druso, sfrutta in parte un edificio fascista dal tipico stile architettonico razionalista del Ventennio, la palestra della GIL – Gioventù Italiana del Littorio, riconvertita e ora adibita a biblioteca, e alla quale è stato accostato un nuovo blocco architettonico a vetrate ipermoderno. Un esempio lampante di quello che è stato chiamato il Bolzano way di rapportarsi alle architetture controverse, sulle quali il dibattito è acceso non solo a livello di attivismo memoriale, con le contestazioni dal basso e i vandalismi a cui ho accennato poco sopra, ma anche a livello politico-istituzionale. Abbatterle, come anni fa proponeva in un articolo che ha fatto clamore il New Yorker, non è certo la soluzione, trattandosi peraltro nella maggior parte dei casi non di monumenti celebrativi fini a se stessi, ma di edifici sedi di importanti funzioni della vita civile, dai tribunali alla polizia, dai comuni alle filiali dell’INPS. Il ‘Bolzano way’, ad oggi un unicum, spicca entro questo dibattito come esempio di conciliazione tra tradizione e innovazione, tra contestazione e conoscenza, tra passato e presente.
La summer school ha centrato l’obiettivo di mostrare che mentre la storia la studiamo sui libri, la memoria solo in minima misura la troviamo impressa su carta. La memoria la troviamo nel presente. Ora che nelle famiglie la trasmissione intergenerazionale del passato tra le mura di casa si sta rarefacendo in misura crescente, il territorio, il paesaggio, le architetture e i monumenti sono forse le chiavi di lettura e interrogazione del passato più accessibili che abbiamo. Ma occorre gettarvi uno sguardo. La memoria richiede attenzione. Studiare la memoria storica, o meglio, studiare la storia anche nell’ottica della memoria significa intessere una relazione consapevole, documentata, critica e dialogante con il mondo. Con il passato, il presente e il futuro.