Il giudice Carlo Ancona: “Giovani, siate più consapevoli!”

Ci troviamo sotto il diluvio universale di fine novembre, in un bar di Via S. Croce. Una di quelle grosse e grasse piogge monsoniche che sovente dà l’illusione di essere nel profondo Borneo anziché nella città del Concilio. Carlo Ancona non mi offre il canonico caffè che dà il titolo alla rubrica, bensì un cappuccino al latte di mandorla. “Lo deve assolutamente assaggiare”, insiste. È così che mi approccio alla sua contagiosa simpatia e alla sua parlantina schietta e colta. Mi accoglie nella sala riunioni del FilmFestival della Montagna, dacché è membro storico del Consiglio Direttivo. Dopo la toga, la montagna è infatti la sua grande passione. Forse più di una passione che per definirla in modo corretto necessiterei di una parola non ancora inventata. Per il momento mi accontento di rendere l’idea.Abruzzese di nascita, molisano di adozione, 73 anni, Carlo Ancona è sposato con Daniela e ha due figli, Giulia e Claudio. Arriva in Trentino nel 1977 per tre ragioni principali, che probabilmente svelerò nel corso di questa intervista. Quel che è certo è che il 20 dicembre del 2018, a Rovereto, è entrato in aula per le ultime udienze penali della sua carriera. Ancona, che ha legato il suo nome ai maggiori procedimenti giudiziari transitati attraverso il Tribunale di Trento – dai morti della Sloi al crac di Fassalaurina, dal disastro di Stava alle tangenti Autobrennero –, ha chiuso la sua carriera dopo ben 42 anni di magistratura.Il suo eloquio è fine, pieno di citazioni. Spuntano qua e là riferimenti letterari e musicali, cenni di antropologia, fisica, teologia, medicina. Insomma, è un vero piacere porgli quesiti e starlo ad ascoltare. Mi verrebbe quasi da dire che a fare il giudice fosse un poco sprecato, ma non trovo il coraggio per dirglielo.Gli chiedo se ricorda l’ultima volta che ci siamo incontrati. È stato nel 2001, alla presentazione del mio libro “Ciò che non si po’ dire. Il racconto del Cermis”. Se la ricorda, eccome. Al mio schermirmi (“In fondo è solo un amarcord”), lui ribatte fermo: “Non è un amarcord di poco conto, perché è stata un’esperienza interessante confrontarsi con un tipo di giurisprudenza del concreto”. Gli americani, ci spiega Ancona, dal loro punto di vista, si badi, e solo da quello, hanno avuto ragione ad assolvere i piloti, perché il loro addestramento richiedeva voli radenti. Casomai – aggiungo io – le responsabilità sono state di chi non ha effettuato un adeguato controllo, anche da parte italiana.
Lei ci trova quindi qualche pregio nella giustizia americana?
Nella canzone “A Silvia” Guccini la definisce: “Nazione di bigotti”. È una giustizia feroce, la loro. Pensiamo al caso di Chico Forti…
Sono venuto ad intervistarla con un pensiero in testa che in fondo il giudice sia anche un po’ un giornalista… Fa delle domande…
La correggo. Da 11 mesi il “giudice” non c’è più.
Non parlo di lei. Dico in generale…
Allora la risposta può essere: “Non sempre”. Io ho fatto domande e ho indagato quando ero giudice istruttore, quindi fino al 1989, e quello è stato un periodo molto importante e significativo per la mia vita, non solo professionale. Poi ho fatto altri lavori. Mansioni di controllo.
Si riferisce alla separazione tra la parte inquisitoria e quella di verifica attuata dal nuovo codice di procedura penale del 1989?
Certo. La ricerca della verità avviene verificando ciò che le parti portano. Il giudice in questo caso non fa domande. Ovviamente ha delle risposte.
Niente giornalista, allora. Vediamo… Il giudice è dunque simile ad un prete? Assoluzione, penitenza, ecc…
No. Il prete è un eccellente strumento che sostituisce lo psicologo.
Effettivamente nella confessione…
Il valore della confessione lo si può comprendere studiando la figura di Martin Lutero: l’indulgenza veniva prima del rapporto con Dio. Il giudice deve stare attento a non sostituirsi a Dio.
E cioè?
Deve capire che è fallibile, che è assolutamente inadeguato e che amministra una giustizia terrena che, come tale, è molto relativa.
Mi tolga una curiosità: il giudice si chiama sempre così anche dopo la pensione? Come i Presidenti del Consiglio?
Bisognerebbe andare in giro con una coccarda con su scritto “Non più”. In America usano il termine “formal”. Altrove dicono “emerito”…
Bello!
Sì, ma emerito, sa, è una cosa importante… Non posso certo paragonarmi al Presidente della Repubblica o al Papa.
Quasi un anno di pensione. Posso chiederle cosa ha fatto?
Ha presente quella canzone di Battisti che dice “Qualche cosa di sicuro io farò…”?
Quindi qualche cosa ha fatto?
…piangerò… No, scherzo. Pian piano mi sono disabituato a lavorare con la tensione e l’attenzione quotidiane che una volta il lavoro mi imponeva.
È un lavoro a sua volta?
No, lo smontaggio non lo considero un lavoro. Anche perché a faticare ci si mette un po’ di tempo ad abituarcisi. A non faticare ci si mette anche poco.
È stato come se l’aspettava?
Un po’ meglio.
Ovvero?
Pensavo di rimanere più crudamente ferito da questa privazione di significato della mia vita.
Ha continuato a seguire la giurisprudenza?
Sì, e assistendo ad alcuni interventi mi sono reso conto che stavo diventando un mezzo dinosauro.
Addirittura.
Sì, lo avevo già percepito durante gli ultimi tempi del servizio.
Perché non riusciva più ad aggiornarsi?Sì, riuscivo a farlo, ma proprio questo aggiornarmi mi portava a confrontarmi con una realtà che a volte mi sembrava intollerabile.
È una questione di mentalità?
Lei pensi all’ultima sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo per i mafiosi: secondo quella sentenza Riina dopo 20 anni avrebbe potuto uscire.
E a lei pare strano?
Io francamente avrei difficoltà ad accettare qualcosa del genere. Già il fatto che molti terroristi siano usciti molto presto non mi sta molto bene. Secondo me Riina sarebbe tornato a fare quello che faceva. Sentirsi poi imporre certi provvedimenti da Strasburgo…
È vero che l’Italia si regge sulla prescrizione?
È lo stigma di una incredibile stupidità. Come la fandonia che viene continuamente propinata dai media che se si toglie la prescrizione processuale, ovvero quella durante il processo…
Mi lasci indovinare: i processi si allungherebbero, perché non ci sarebbe più l’urgenza di concluderli?
Sì, ma non è vero perché una buona metà delle impugnazioni si fanno solo perché si vuole arrivare alla prescrizione.
Può spiegare?
Se almeno dopo la prima sentenza di condanna si bloccasse, una buona metà degli appelli non si farebbe più. Mi ricordo di avvocati che venivano in udienza preliminare e dichiaravano impavidamente di “mirare alla prescrizione”.
Lo “dichiaravano”?
Certo, erano persone corrette
L’eccezione che diventa sistema.
Esattamente. Il meccanismo diventa virtuoso perché si avvita su stesso se ci sono molti patteggiamenti, quindi riti abbreviati, i processi diventano tutti più veloci, automaticamente non vi è più convenienza a farli durare a lungo, perché comunque si chiudono prima della prescrizione.
E Trento è un’eccezione nell’ambito di queste “eccezioni”?
Trento per fortuna è un’eccezione nel panorama nazionale.
Bene. Come mai, secondo lei?
È una questione di dovizia di risorse, ma soprattutto di civiltà dell’ambiente.
Quali altre differenze vede tra la giustizia trentina e quella italiana?
Ad esempio, mentre in Italia al penale è riservato il 50% delle attività di un Tribunale, a Trento siamo al 30%. Il resto va al civile.
Cosa significa?
Che tutto si velocizza in modo impressionante.
Tornando a lei l’andare in pensione è stata una sua scelta?
No, è stata una scelta legislativa. Un tempo il limite era i 70 anni. Poi fu portata a 72. Berlusconi la innalzò fino ai 75. C’è tutta una vulgata sulle ragioni…
Ce la illustrerebbe?
Anche no.

Giovanissimo magistrato dopo la tragedia di Stava

Va bene. Allora passiamo ad altro. Dopo la medicina difensiva e dopo l’insegnamento difensivo ora qualcuno parla anche di giustizia dello stesso tipo…
Tutto in questo Paese sta diventando di tipo difensivistico. Se lei va in una qualsiasi Amministrazione comunale a chiedere un’autorizzazione per erigere un muretto le faranno delle difficoltà di ogni genere. Se invece lei ci va con 4 avvocati e 3 architetti che fanno un progetto abietto lei troverà subito accoglienza.
Come si spiega?
Per il fatto che in quel momento sarà lei a far paura a loro.
Paura di decidere?
Io parlerei più di paura di scontentare il potente. L’Italia è un Paese di garanzie e che non sa selezionare i propri dipendenti e funzionari.
Lei trova che il nostro Paese sia eccessivamente garantista?
Ogni giorno che passa di più.
E negli anni Settanta, com’era?
Un pochino meno di adesso, il che non vuol dire che funzionasse meglio. Però funzionava di più.
Mi parli un po’ delle sue origini.
Sono nato a Teramo, in Abruzzo.
Terra di terremoti. Come vivete questa situazione voi abruzzesi?
Come una sorta di perpetua messa alla prova. La notte del terremoto dell’Aquila ero a Teramo da mia madre, pochi chilometri in linea d’aria. Sono stati i 20 secondi più lunghi della mia vita…
Lei però è anche un po’ molisano…
Sì, mi considero molisano perché lo erano i miei genitori.
Ma il Molise esiste?
Questo è un problema… A parte le battute, quando a Roma si deve prendere il treno per il Molise si fa una certa fatica. Partono sempre da angoli inaccessibili della stazione.
Ma quando ha sentito per la prima volta parlare di questa misteriosa terra chiamata “Trentino”?
Leggendo la rivista del Club Alpino Italiano. Contrariamente a quanto si può pensare, non ci sono capitato per caso qui. Già allora amavo le montagne e il Filmfestival.
Non mi dica: l’abruzzese ha tradito il Gran Sasso?
Che vuole farci: la vita è fatta di tradimenti.
Suo padre faceva il magistrato. Le ha imposto la scelta professionale? L’ha consigliata o l’ha sconsigliata?
A dire la verità mio padre evitava di pronunciarsi su questo. Ha presente quando l’acqua scende perché segue la pendenza del terreno?
Credo di sì.
È stata una scelta naturale.
Le avrà pur detto qualcosa suo padre quando ha capito cosa stava per fare.
Ha avuto la saggezza di non dirmi nulla.
Ma cosa avrebbe voluto dirle, secondo lei.
Insiste?
Insisto.
E va bene. Diciamo che la scelta di rimanere in Trentino l’aveva colpito un po’. Poi ha cambiato idea…
Quando?
Non quando gli ho fatto visitare posti bellissimi come la Val di Genova, ma quando l’ho portato sull’Ortigara. Lì mi ha detto: “Adesso ho capito perché sei venuto qui”.

È il momento, sapevo che sarebbe arrivato. Il punto esatto in cui l’intervista avrebbe virato abbandonando i toni leggeri, per raccogliere la testimonianza del Giudice Ancona rispetto ad alcuni grandi casi di cronaca che sono passati tristemente alla storia. Cominciamo, inevitabilmente, con il Vajont del 1963.

Sono passati tanti anni, eppure se ne parla ancora.
I grandi giornalisti dell’epoca – Bocca, Montanelli, Buzzati – tendevano a far apparire quanto avvenuto come una casualità, la forza della Natura. Ho studiato il Vajont perché era l’unico precedente a cui attingere dopo la tragedia di Stava.
Quali sono, secondo lei, le differenze principali delle due tragedie.
Che al Vajont sapevano tutto. E avevano previsto tutto. O quasi.
Quel “quasi” sta a dire?
Che non avevano previsto la potenza, e quindi la portata, di quanto stava per avvenire.
Ma poi, se vogliamo, la verità sta anche nei nomi dei luoghi…
Monte Toc è un toponimo che già dice molto. Per non parlare delle “Pozzole” di Stava.
Che stava a significare?
Che c’erano molte sorgive e quindi il terreno era impermeabile e quindi l’acqua non sarebbe mai permeata di sotto, come qualcuno pensava.
Lei ha detto che Stava è stato un’esempio perfetto della banalità del male.
Non c’è un paragone con il Vajont. A Stava, ogni giorno si buttava un po’ di fanghiglia. Ha ingannato la lentezza dell’operazione e poi la sapiente opera di copertura che ci fu nel 1975.
Che accadde, allora?
Arretrarono l’argine dei bacini e quindi prolungarono i tempi di crescita del secondo Rilevato, quello a monte, di almeno un’altra decina di anni.
Mi ha sempre colpito come i controlli fossero comunque sempre a rigore di legge. Almeno nella forma.
Sì, perché riguardavano aspetti “secondari”, se vogliamo. La qualità dell’acqua restituita dal bacino di decantazione era massima. C’era rispetto per le piante e per tutto il contesto ambientale e paesaggistico. Ma la situazione che si venne a creare fu drammatica.
Quindi la legalità, per lo meno quella formale, delle volte non è così importante?
Certamente non è decisiva. A Stava rispettando tutto violavano tutto.
Ma qualcuno se ne rendeva conto?
No. Era l’indifferenza più totale. A parte il Sindaco che nel 1975 aveva sollevato la questione.
È vero che qualcuno lo avrebbe voluto come imputato?
La Legge italiana è strana. Delle volte punisce non chi non ha fatto nulla, ma chi ha cercato di fare qualcosa. E non è riuscito a fare abbastanza.
Come ha vissuto a livello personale tutta la vicenda?
Io mi porto addosso la cosiddetta “colpa del testimone” che dice io l’ho visto e non sono riuscito a fare quello che potevo fare. In realtà non potevo fare nulla.Ne “La Tregua”, Primo Levi scrive che quando i russi arrivarono ad Auschwitz lui, vittima, provò vergogna per tutto quel macello.Il senso di colpa rimane.
Tuttavia andare in pensione può essere una bella novità. Le stanno capitando cosa nuove?
Sto conoscendo quella cosa meravigliosa che è la realtà umana della SAT. Una tradizione trentina, soprattutto nelle Valli: una di quelle cose che per qualche secondo ti danno la sensazione che vi siano delle speranze.
Anche se però dopo Vaia si pone nuovamente il problema della responsabilità rispetto ai sentieri.
La tesi è di stampo americano. Il cittadino deve essere tutelato nel suo benessere fisico. Se non puoi farlo lo assicuri con un corrispettivo economico. Ma siamo nel campo civile.
E il penale?
Beh, pensi agli accompagnatori di montagna, quale io sono. In quel caso vi è un conferimento di fiducia da parte dell’accompagnato.
Le è mai successo di avere problemi?
Per fortuna no. Ma avrebbe potuto succedere.

Diamo uno sguardo all’attualità italiana. L’Italia e gli italiani…
In Italia abbiamo sostituito il cittadino con la figura dell’assistito. Consumatore assistito.
Quali sono i pericoli dell’assistenzialismo?
Si crea un assoluto disincentivo alla responsabilità. Nessuno più pensa alle conseguenze di ciò che sta facendo.
Anche nell’imprenditoria?
Non solo. Ma tragicamente anche nella cultura collettiva.
E, se mi permette, nella Cultura, quella con la “C” maiuscola.
Faccio uno spettacolo, giro un film, pubblico un libro che pesa 5 chili non perché sia ispirato o abbia a cuore l’arte, ma perché so che mi arriva il contributo…
Poi c’è anche la tanto decantata “quota 100” varata dal Governo.
È qualcosa di spaventosamente costoso, soprattutto in termini culturali, più che economici. Siamo tornati ai tempi delle pensioni baby di Mariano Rumor. C’è una svalutazione culturale del lavoro che viene percepito come qualcosa di negativo.
“Arbeit macht frei” avevano scritto con il ferro ad Auschwitz…
Lì era una bestemmia, ma che il lavoro renda liberi è una sacrosanta verità. La libertà non è stare sopra un albero – come cantava Giorgio Gaber – ma è partecipare alla vita della collettività. In modo consapevole e il più possibile efficace. Dando così un senso alla propria vita.
È normale.
Tanto normale che sembra non capirlo nessuno…
Come nel 1977 nessuno sembrò capire quello che stava accadendo alla Sloi. Lì fu il suo battesimo di fuoco come magistrato, vero?
Dal punto di vista professionale fu un successo, la Cassazione su quella sentenza basò un mutamento di Giurisprudenza in materia di reati ambientali.
La spaventò quel che accadde?
Io mi sono sempre spaventato.
Perché?
Soprattutto perché mi sono sempre sentito inadeguato. Lei non ha idea di cosa successe quando arrivai a Stava e vidi quel che vidi… Era tutto talmente sproporzionato rispetto alle mie capacità di comprensione. Poi capii una cosa…
Cosa?
Che gli altri capivano ancora meno di me.
E questo la confortò?
Alla Sloi ero ancora un ragazzino. Avevo 29 anni. Mi trovai davanti ad una tragedia cominciata di fatto già nel 1939. Trento doveva fornire di piombo antidetonante l’aviazione tedesca. Poi passarono gli anni, e l’inconsapevolezza fece il resto.
Oggi potremmo parlarne a proposito di Taranto. Ma pensiamo anche all’acciaieria di Borgo Valsugana che, se non sbaglio, la vide impegnato.
A Borgo nessuno fu in grado di dimostrare un collegamento tra la polluzione e i danni alla salute, dal punto di vista medico. Vi fu un risarcimento solo per il danno psicologico di vivere sotto questa cappa. Non ci si pensa, ma non sempre è possibile dimostrare le cose.

Ha mai ricevuto minacce?
Esplicite e chiare, mai.
Mai?
No, perché sono anche abbastanza bravo. O forse perché non ne valgo la pena.
Passiamo al territorio. Dagli eventi di Fassalaurina 1978, quando il rischio cementificazione fu concreto, sono cambiate le cose in Trentino, oggi?
Non mi pare che sia cambiato nulla. Come ho già detto prima, vale la regola che se io chiedo di alzare un muretto mi faranno nero, se invece mi presento con alcune migliaia di metri cubi in evidente violazione del programma edilizio comunale, ovviamente mi fanno fare dieci studi, creano cioè un iter lungo, lunghissimo che alla fine – guarda un po’ – giustifica la concessione della licenza edilizia. E posso cominciare a costruire.
Et voilà. E la tempesta Vaia non ci ha insegnato nulla?
Ci ha provato, invano. Ha provato a spiegarci che ogni cosa è effimera. Basta un colpo di vento…
La montagna non riesce proprio ad inculcarcelo questo senso del limite?
Non solo. Ma continuiamo a contraddirlo. Ma voglio risponderle anche in un altro senso. C’è stato un solo giorno in cui sono stato contento di essere in pensione. Perché quel giorno mi sono sentito finalmente libero di partecipare ad una manifestazione.
Quale?
“Friday’s for Future”.
Le ha dato speranza?
Poca. Ho l’impressione che per gli uomini, sapere che si finirà presto serve soltanto ad accelerare i processi disfattivi. Ad alzare il livello dell’insulto.
In tal senso, vede anche un problema generazionale?
Non ne sono sicuro. Anche se è vero che c’è uno sfruttamento della rendita di posizione – chiamiamola così – dei 50enni e 60enni che è vergognoso. Contrabbandare poi una misura come quota 100 come occasione di lavoro per i giovani è una farsa. Quello che vedo però è la scarsa informazione e consapevolezza nei giovani.
A proposito di giovani e cose “giovani”: qual è il suo rapporto con le nuove tecnologie?
Non ci capisco niente.
Bene.
L’uso dei social è un’ulteriore forma di manifestazione della tragedia in cui viviamo. È vero che sono utili per la comunicazione, ma sono anche strumenti di aggregazione e di consenso in senso incontrollato e irresponsabile.
Come potremmo coniugare oggi il “cogito ergo sum” di Cartesio?
Parlo, polemizzo, insulto e perciò esisto. Più grossa la dico più vengo considerato e premiato. È paradossale, ma non interessa più se sto dicendo la verità, cose sagge o meno.
Da magistrato si è mai interrogato sull’oggettività dell’etica?
No. Non lo faccio nemmeno adesso. L’etica è sempre relativa ad un sistema organizzativo. Gli uomini sono specializzati nell’analisi e nello studio. Pensi che meraviglia: noi siamo frutto dell’evoluzione e abbiamo studiato l’evoluzione.
Come diavolo abbiamo fatto?
È incredibile. A volte mi chiedo se non sia tutta un’illusione.
C’è anche questo dubbio?
Eh, sì. Stiamo per arrivare ad un momento culminante in cui sapremo tutto.
Si riferisce al giudizio universale?
No, all’analisi dell’evoluzione del genoma umano.
E quando sapremo tutto che faremo?
A quel punto non ci sarà più nulla. Come nel finale di “Cent’anni di solitudine” di Gabriel G. Marquez. Aureliano Secondo decifra le pergamene mentre Macondo viene spazzata via dalla faccia della Terra. Sapere tutto significherebbe chiudere tutto, per sempre. E invece abbiamo bisogno che ci rimanga un margine di mistero.

Forse è anche per questo che Carlo Ancona declina gentilmente, e con l’ironia che gli è propria, la mia richiesta di fotografie “personali”. Di seguito la breve mail con la quale mi congeda. Mi pare che non ci possa essere miglior chiusura per questa intervista: Mi par di capire che mi sta chiedendo delle fotografie. Meglio di no: il tempo passa, è inutile fingere un ritorno con l’uso di immagini lontane; che magari mi raffigurano mentre sto facendo cose che ora non faccio più, caccia a cinghiali, arrampicate, teatro. Resta il ricordo, certo; perché non siamo fatti di sogni, ma di ricordi. Lasciamoli al loro posto.

Le domande fisse a Carlo Ancona

Il libro che sta leggendo.

Si tratta di una rilettura: “La decadenza dell’Europa occidentale” di Mario Silvestri, terzo volume. Ma è un caso: leggo di tutto.

Numero preferito.

Il 2. Non mi chieda perché; probabilmente perché è il più piccolo ma diverso da uno.

Colore preferito.

Quello della faggeta in autunno, rosso carico.

Il piatto che ama di più.

Sempre quello che il giorno, il caso e la disponibilità mi mette davanti. Meglio se accompagnato da un sorriso.

Squadra di calcio?

Il Milan della Coppa dei Campioni vinta a Wembley, quasi cinquanta anni fa. Oppure l’Italia del 4 a 3 sulla Germania. Insomma, la mia adolescenza. ln alternativa, quella degli ammogliati al mio paese, del 1981.

Automobile.

La Fiat 500 celeste dei miei vent’anni.

Il viaggio che non è ancora riuscito a fare.

Ad Adua, a capire sul posto (solo lì è possibile, come per l’Ortigara) il perché di una sconfitta che poi si è sempre ripetuta, e così interrogarmi sulle manifestazioni della eterna pigrizia intellettuale e superbia arrogante della classe dirigente italiana.

Animali domestici

La mia cagnetta Diana. Una setter inglese. Morta, però, nel 1973.

Il film del cuore.

Rimane “La battaglia di Algeri”, di Gillo Pontecorvo. Ma ve ne sono molti altri vivi nel cuore e stampati nella mente, tanti.

Cantante, compositore o gruppo preferito.

Francesco Guccini in Italia. Canzone preferita “Cirano”. La coppia Joan Baez-Bob Dylan nel mondo anglosassone. Canzone: “Blowin’ in the wind”.

Se non avesse fatto quello che ha fatto, cosa avrebbe voluto fare?

Non ho mai provato in questo esercizio di proposizione controfattuale. Come diceva Primo Levi, a parte alcuni momenti di rapimento, l’amare il proprio lavoro (cosa che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra; anche se questa è una verità che non molti conoscono. E questo risultato lo ho ottenuto.

La cosa che le fa più paura.

L’indifferenza. Infatti, ho sempre paura.

Il suo sogno notturno ricorrente

Non ho un sogno ricorrente. Ma, se lo avessi, non lo rivelerei.

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.