1. Noi però gli abbiamo fatto le strade (e ora gli vendiamo le case)

L’autista di Uber si chiama Abdullah e ha 27 anni e viene dal Kenya. Non pensavo potesse accadesse davvero in natura , ma parla un inglese peggiore del mio. Mi preleva al Pearson Airport di Toronto in Missassauga, quando sono oramai le 22 ora locale che corrisponde ad un’ora incredibilmente tarda rispetto alla mia di provenienza.
Abdullah correva le maratone da ragazzo, ma poi si è fatto male ad una caviglia e buonanotte al secchio. Mi accompagna nella stranissima casa che mi ospita, nel cuore di Maple sobborgo di Vaughan, sobborgo a 40 km dalla grande città.

La casetta è una delle migliaia disposte lungo viali ordinati e lindi, corredati da giardino, capanno degli attrezzi e suv, come nelle migliore tradizione americana. Più “Truman show” che “Happy days”, però. (Con i visi delle agenti immobiliari che si occupano della compravendita esposti ad ogni angolo di strada: i cognomi sono difficilmente equivocabili).

Ci ospita una famiglia cinese. Non ho idea di come abbiano potuto acquistare una di queste magioni che costano dal milione e mezzo di dollari canadesi in su (ca. un milione di euro). Già al mattino le stanze vengono lentamente invase da poco invitanti profumi provenienti dalla cucina. Vorrei chiedere all’uomo che incontro nella living room cosa lo abbia portato dall’estremo Oriente nel cuore della piccola borghesia canadese, dove è giunto con tutta la famiglia, ma mi sguscia via come un serpentello, forse lo stesso che ho l’impressioni stia bollendo in quella pentola messa sul fuoco.

A Toronto ci sono 400mila italiani (compreso il Sindaco di Vaughan) su 8 milioni di abitanti, dei 39 totali di tutto il Canada. Una nazione giovanissima, fatta dagli stranieri. Come le strade che con David Corazza percorriamo per recarci in città. Le hanno costruite gli italiani negli anni Sessanta del secolo scorso, mi dice. La popolazione sta crescendo a ritmi forsennati. Qui arrivano da tutto il mondo ogni giorno. Si parlano 104 lingue. Sarà questa la ragione per cui i cantieri dei nuovi grattacieli abitativi non si contano nemmeno. Italiani pure qui, figli e nipoti di quegli stessi che fecero le strade.

In fondo l’economia qui è solida, le autostrade non si pagano, la sanità è pubblica ed efficientissima, così come la previdenza pensionistica. Sono i secondi produttori al mondo di grano (Manitoba, vi dice niente?) pertanto la guerra laggiù non li tange nemmeno un po’, quanto meno da un punto di vista strettamente economico.

Il Canada apre le porte e il mondo entra in casa: seguendo tutte le regole del caso, facendo lavori da fame, vivendo di mille espedienti almeno all’inizio, ma entra e viene accettato. Sì, il classico esempio di convivenza. Il padre di David, Benito, classe 1936, arrivò qui dalla Valle di Non nel 1957. Oggi ha 86 anni e molti anziani come lui si fanno dare una mano da badanti asiatici.

Immigrazioni che si succedono ad altre immigrazioni. Sono dinamiche demografiche che da noi ancora facciamo fatica metabolizzare. E la colpa non è solo di una politica ottusa e conservatrice, quanto della conseguente cultura che ci ha plasmati negli ultimi 20 30 anni. Eppure qui in Nordamerica tutto appare talmente naturale. Senza nemmeno l’ombra di quello stucchevole e ipocrita patriottismo che nei vicini Stati Uniti pretende di fabbricare identità in laboratorio. 

Qui è tutto diverso. È come il ritmo regolare di un respiro. Il respiro del nostro stare al mondo.

pinoloperfido@gmail.com

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.