Il senso della specie

Dinanzi ai grandi cambiamenti e alle sfide globali sembriamo tutti uguali, noi umani. Chini sui nostri smartphone, alla costante ricerca di una rete a cui connetterci, attraversiamo deserti e montagne da sud a nord, da est a ovest, con corpi, credenze, tradizioni e generi diversi, ma accomunati da un bagaglio culturale ormai planetario: la mela morsicata della Apple, il doppio arco giallo di McDonald’s, lo «swoosh» della Nike… Simboli che riusciamo a riconoscere ovunque, che ci si trovi nelle steppe dell’Asia centrale o al Tropico del Cancro. 

Siamo accomunati anche da alcune grandi certezze che animano il nostro tempo: tra queste, quella che per ottenere qualsiasi cosa — salute, dignità, diritti, felicità — ci voglia il denaro. E che per il denaro bisogna essere disposti ad attraversare, appunto, deserti e montagne. 

Ma gli aspetti che ci uniscono non sono tutti qui. 

Oltre il 60% di noi si è ormai insediato nelle grandi aree urbane e non ha esperienza diretta dell’agricoltura. Dunque siamo più di cinque miliardi a consumare alimenti prodotti dall’industria alimentare, i cui meccanismi sono un grande mistero per chi non lavora in questo settore. Stiamo diventando più simili anche nel nostro modo di riprodurci: non siamo più una specie molto fertile anche se siamo davvero numerosi. Siamo passati dall’avere molti figli per sopravvivere, a sperare di sopravvivere perché scegliamo di non fare molti figli. Anche le lingue che parliamo si assomigliano sempre di più. Ci sono parole come «web», «Internet», «Wi-Fi», «CRISPR», «call» che sono usate praticamente in tutti gli idiomi; se ne estinguono parecchi ogni settimana, quando muoiono gli ultimi esseri umani in grado di parlarli. Alcune lingue, invece, come l’inglese, il russo e il cinese mandarino, continuano a conquistare terreno, a divenire fondamentali per un numero sempre maggiore di persone. 

Sono tante, quindi, le cose che abbiamo in comune. 

Eppure, oggi si può ancora morire a causa di un credo religioso, di un muro o un mare che separa due diverse nazioni. Si muore perché non si ha un passaporto, per il colore della pelle, per il proprio sesso biologico o per il proprio genere. 

La cultura planetaria in cui siamo immersi non ci rende uniti, né immuni dalla discriminazione o dai complessi di inferiorità o superiorità culturale; non ci rende liberi di viaggiare e di scegliere dove risiedere, né pronti a immaginare progetti davvero globali.

Come se, nonostante le evidenti somiglianze, la cultura stesse tergiversando, attaccandosi a certezze del passato ormai prive di valore. Il risultato è per certi versi un paradosso: più ci somigliamo, più ci sentiamo frammentati, isolati e profondamente divisi

Ma la realtà è che siamo in balia di forze contrapposte: da una parte siamo spinti da una enorme forza centripeta, che è quella della globalizzazione: una cultura planetaria a cui nessuno può resistere, fatta di simboli e rituali comuni in cui sempre più esseri umani si riconoscono. 

Dall’altra, però, ci trattiene la forza centrifuga delle nostre identità, che sembrano faticare a trovare orizzonti di senso comuni in grado di accompagnare le trasformazioni già in atto nei nostri stili di vita. Da una parte, alcune culture spariscono, soccombono e sono in fase di estinzione; dall’altra si reinventano, si mescolano, muoiono per poi riproporsi in versione planetaria. 

E allora noi umani, sempre più omologati, sempre più frammentati, viviamo come se non ci fossero confini all’utilizzo delle risorse di questo pianeta, mentre continuiamo — imperterriti — a confinarci in categorie sociali, economiche, etniche, sessuali, religiose e politiche ormai obsolete, un po’ come se usassimo un vecchio computer Commodore del 1980 per progettare la più avanzata versione di intelligenza artificiale: abbiamo espanso le nostre conoscenze, ma le strutture mentali che impieghiamo non sembrano essersi ancora aggiornate rispetto alla mole di sapere accumulato.

È arrivato dunque il momento di prendere atto che i confini culturali a cui costantemente facciamo riferimento, spesso anche per giustificare la disuguaglianza sociale e la povertà globale, sono la pesante e ingiusta eredità di un passato obsoleto in un mondo completamente nuovo e in precario equilibrio, nel quale tutto ciò che è confine — geografico, culturale, spaziale, temporale — non è solo superato, ma, molto probabilmente, non contribuisce in alcun modo a migliorare le nostre possibilità di sopravvivere e di superare le grandi sfide planetarie che ci attendono. 

Alcune di queste sfide le stiamo attraversando proprio ora: la pandemia, il cambiamento climatico, l’inquinamento; altre sono davanti ai nostri occhi, ma non al centro dei nostri pensieri e delle nostre scelte politiche, come ad esempio l’ingiusta distribuzione delle risorse e delle conoscenze, e la concentrazione della ricchezza globale in mano all’1% degli esseri umani; altre ancora ci attendono di qui a breve, come le possibilità offerte dalla manipolazione del DNA, la riproduzione della vita realizzabile anche fuori dal corpo umano, l’intelligenza artificiale… 

È arrivato il momento di smettere di immaginarci come appartenenti a una nazione, a un popolo, a un’etnia, a una religione, a un genere. È necessario e impellente pensarci come parte di un’unica specie: Homo sapiens, un mammifero abilissimo nella manipolazione della natura e dell’ambiente, che oggi controlla l’intero pianeta. 

I vecchi sistemi di significato basati su differenze tra razze, nazionalità, etnie, generi, appartenenze religiose devono lasciare spazio a nuovi orizzonti di senso in grado di rispondere alle domande che, dopotutto, non abbiamo smesso di porci fin dalla nostra comparsa sulla Terra: che significato vogliamo dare al nostro passaggio su questo pianeta? Siamo solo predatori intelligenti e infestanti o c’è dell’altro in noi? 

È un senso della specie che deve essere comune, condiviso e coeso, guardando oltre le categorie che in passato ci hanno definito. 

L’imperativo a queto punto è indagare gli elementi della cultura planetaria in cui siamo immersi, mettendo in luce come — nonostante i discorsi basati sull’odio, la costruzione negativa dell’«altro», l’esclusione su base razziale — l’unificazione culturale della nostra specie è un cammino ormai intrapreso, ed è in fondo l’unico che potrà salvarci. 

Il genere umano ha la possibilità di comunicare, scambiare idee e conoscenze, spingere l’acceleratore su tutto ciò che ci è dato sapere su noi stessi, sul mondo e sull’universo; d’altro canto, sappiamo che questo non significa aver trovato la soluzione alle profonde disuguaglianze, ingiustizie e comportamenti che quotidianamente mettono a repentaglio l’equilibrio dell’ecosistema e la nostra stessa esistenza sulla Terra. 

Oggi possiamo soddisfare fantasie e desideri che un tempo erano solo evocati nelle favole, come volare, vedere persone che si trovano a migliaia di chilometri di distanza senza muoversi da casa, viaggiare nello spazio. Al contempo siamo però in grado di realizzare anche i nostri peggiori incubi, come quello della distruzione di massa grazie a sofisticate tecnologie militari; temiamo che un giorno potremmo progettare macchine computazionali e robot destinati a sostituirsi a noi in molti ambiti chiave dell’esistenza, oppure che finiremo per devastare l’ambiente in modo irreversibile. 

Siamo interconnessi, certo: le nostre idee, noi stessi, i nostri beni e persino i nostri rifiuti viaggiano da un punto all’altro del pianeta; eppure continuiamo ad attaccarci con tutte le forze a tradizioni obsolete e dannose, come quelle che promuovono la limitazione della libertà del genere femminile in nome di una gerarchia vecchia di tredicimila anni, o che relegano interi gruppi etnici a uno stato di subordinazione, magari in base al colore della pelle. Sono dure a morire anche le tradizioni che limitano la libertà di spostamento in nome di concetti presentati come immutabili quali «identità», «nazione», «popolo», che pure sono idee relative e in costante trasformazione, e persino chi le utilizza non saprebbe da dove cominciare per definirle in modo univoco, chiaro e definitivo. 

La rete di idee e oggetti che abbiamo creato è talmente fitta, «contagiosa» e virale che, a differenza di altri grandi mammiferi, la nostra specie non si è differenziata in razze per il semplice motivo che la sua storia è stata segnata da massicce migrazioni e interconnessioni; perciò non ci è stato possibile sviluppare una vera e propria differenziazione, che avrebbe al contrario richiesto una buona dose di isolamento e di attaccamento a uno specifico territorio: ci siamo mescolati e spostati troppo per poter «vantare» una speciazione razziale. 

La cultura planetaria, dunque, è da sempre incastonata nella storia della nostra specie, che nel tempo ha saputo diffondersi, partendo dall’Africa, su tutto il resto del pianeta.

La novità di oggi, in realtà, è solo la potenza e la velocità con cui l’imitazione, l’apprendimento e l’innovazione si propagano e ci rendono inter- connessi. 

Di fronte a una situazione di questo tipo, caratterizzata da costanti cambiamenti, il salto cognitivo cruciale per la nostra specie è rappresentato dal fatto che non solo gli stessi oggetti e le stesse strategie per migliorare la vita quotidiana sono diffuse a livello planetario, ma che questo processo coinvolge anche aspirazioni, valori, conoscenze, stili di vita, linguaggi. Come i video sui social, anche la cultura diventa virale e a questa tendenza non si può resistere, anche se i tentativi in questo senso non mancano. 

Come per il terzo principio della dinamica – secondo cui a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria – la fase di transizione che stiamo vivendo è perciò caratterizzata dalla spinta verso una cultura planetaria, da un lato, e dalla resistenza che contrasta ogni avanzamento verso di essa, dall’altro. Eppure, proprio questa velocità di diffusione di idee, oggetti e stili di vita può rappresentare una grande opportunità per Homo Sapiens: quella di creare una società globale più giusta e sostenibile per tutti gli esseri umani.

Questo implica però che dovremmo lasciar andare alcuni grandi concetti del passato, integrando l’avanzamento della scienza a conoscenze profonde, molteplici, plurali che ci servano per produrre senso, e siano in grado di accompagnarci non solo nella trasformazione del nostro universo materiale ma anche nei bisogni spirituali. Ciò può avvenire solo attraverso la costante e progressiva integrazione di una scienza sempre più sofisticata e globale con conoscenze locali, che per millenni sono state in grado di creare e tenere insieme comunità, e fornire un senso profondo alla nostra nascita e alla nostra finitudine. Occorre decolonizzare le nostre menti, uscire dalle narrazioni solide del secolo scorso, aprire la porta a visioni indigene del mondo, che mettano in equilibrio l’istinto alla sopravvivenza e il bisogno di trascendenza. 

Due livelli di azione e intenzione, sopravvivenza e trascendenza, hanno accompagnato le scelte che abbiamo compiuto finora come specie. Sopravvivenza e trascendenza sono i due pesi della bilancia che da sempre cerchiamo di tenere in equilibrio. Si tratta solo di comprendere, una volta per tutte, che sono due caratteristiche universali, il cui equilibrio dipenderà sempre più dalla nostra capacità di collaborare tra noi come specie, e all’esterno con altre specie, ma anche dalla nostra abilità di imitare, imparare e innovare, di sentire individualmente e all’unisono, e infine, dalla nostra capacità di selezionare le storie e le memorie al fine di disegnare il futuro che vogliamo – un futuro che sappia guardare oltre il cortile di casa, alla città, all’intero pianeta, al cosmo in cui siamo immersi.

Il libro
«La maggior parte dei gruppi che resistono o si oppongono alla cultura planetaria non sono, in realtà, consapevoli del fatto che non stanno reagendo alla modernità, ma si stanno opponendo alla nascita di una civiltà multiculturale, all’interno della quale le persone, diverse tra loro per colore della pelle, credo e gruppo etnico, condividono lo stesso senso della specie». In un mondo dove si continuano a perseguitare persone perché diverse culturalmente c’è da sperare, come sostiene l’autrice di questo agile saggio (Il Margine, pag. 149, € 13), che si tratti oramai solo degli ultimi rigurgiti di violenza prima del tramonto definitivo dell’«io sono migliore di te», che per millenni ha caratterizzato l’interazione tra gli esseri umani. Il sequenziamento del genoma umano, la ricerca di una riproduzione artificiale della vita, la sfida alla morte caratterizzano la ricerca di senso attuale. L’umanità si sta plasmando culturalmente su basi molto simili da un angolo all’altro del pianeta, spinta fondamentalmente dalla necessità di affrontare o trovare soluzioni per le stesse identiche sfide e trasformazioni: i cambiamenti climatici, le pandemie, l’avvento dell’intelligenza artificiale, solo per citare quelle più evidenti in questo primo scorcio di XXI secolo.
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Pubblicato da Sara Hejazi

Cittadina italiana e iraniana, ha conseguito un dottorato di ricerca in Antropologia culturale ed Epistemologia della Complessità. Accademica, scrittrice, giornalista, collabora con molte università e fondazioni italiane oltre a scrivere su diverse testate. Ha pubblicato i saggi L’Iran s-velato. Antropologia dell’intreccio tra identità e velo (2008), L’altro islamico. Leggere l’Islam in Occidente (2009) e La fine del sesso? Relazioni e legami nell’era digitale (2017). Il suo ultimo libro è “Il senso della Specie” (Il Margine 2021).