Il traffico e la mafia: Johnny Stecchino docet

I meno giovani tra voi ricorderanno certamente “Johnny Stecchino”, l’esilarante film di Roberto Benigni del 1991, e la significativa sequenza in cui il Nostro, attirato a Palermo per fare da inconscio alias (e scudo umano) a un piccolo boss della mafia siciliana, Johnny Stecchino appunto, riceve informazioni riservate a km 0 sulla natura delle piaghe che minacciano la bellezza di Trinacria. La prima, come si sa, è l’Etna imprevedibile che ogni tanto erutta e la seconda è la siccità che qua e là imperversa; ma, come il maggiordomo autista/zio del detto Boss confessa a un Benigni stralunato, il problema principale di Palermo, l’unico causato dagli uomini e non dalla natura e che si potrebbe, volendolo, affrontare, è invece il traffico. Non la mafia, di cui si tace palesemente contro ogni evidenza essendosi allora appena concluso il maxi processo con numerosissime condanne. 

Chiediamocelo: è più facile venire a capo del problema mafia o del problema traffico?

Proviamo a ragionarci. La mafia è un’organizzazione criminale, e come tale è un’anomalia nei rapporti umani. All’esterno viene percepita come un disvalore perché si fonda sulla violenza spesso armata, ed è un parassita della comunità sociale. Al suo interno non è così compatta anche perché oltre a essere iniqua è scomoda: la legge del più forte non è una regola ma una prevaricazione che non offre nemmeno alcuna garanzia di risultato. Non è un caso che vi siano stati al suo interno moltissimi pentiti. Come diceva Giovanni Falcone, è un fenomeno umano, eventuale, non necessario: se non funziona scompare. E prima o poi scomparirà.

Il traffico invece non si riesce a migliorare, nonostante le enormi risorse continuamente investite nel settore. Anzi, continua a peggiorare; non solo nella nostra città: ovunque. Non è solo un problema di inquinamento, ma anche di spreco di energie fisiche e mentali. Persiste e continua a peggiorare. La ragione principale è che non ha scopi collettivi, non esiste come ente volontario; è solo l’effetto delle necessità individuali di movimento, tutte riconducibili alla natura dell’uomo di essere sociale. Non si va in macchina per il gusto di farlo ma per interagire con altri esseri umani. Nessuno può realmente vivere isolato, l’uomo è un animale sociale; tanto è vero che la punizione prevista per i criminali è la prigione, cioè proprio l’isolamento dalla collettività e il divieto di muoversi liberamente. Per questo il traffico non si può fermare. E non si può nemmeno contenere troppo, o ridurre sotto una certa soglia, perché è un’espressione concreta delle relazioni umane e strumento indispensabile del benessere sociale. Diversamente dalla mafia, per così dire, il traffico si può combattere ma non sconfiggere. L’uso della forza, quella dei divieti, delle sanzioni, dei controlli, per ridurre la velocità è una via molto parziale, perché si scontra appunto con il limite inferiore: ogni rallentamento crea altrettanti danni di quanti ne risparmi. L’altra via che si sta attualmente perseguendo è quella di mantenere le relazioni umane riducendo al minimo lo spostamento delle persone. 

Davvero, sarà più facile liberarsi della mafia.

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Pubblicato da Stefano Pantezzi

È nato a Rovereto nel 1956 e cresciuto a Trento, vive a Pergine Valsugana. Laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, è avvocato da una vita. Ha pubblicato la raccolta di poesie “Come una nave d’acqua” (2018) e alcuni racconti in antologie locali. “Siamo inciampati nel vento” (Edizioni del Faro) è il suo primo romanzo.