“Trump è un bugiardo seriale, ma non lo sa.” Questo incipit di Michele Serra (oggi sull’Amaca di “Repubblica”) suona come il preludio di una tragedia moderna, dove il protagonista non è un dittatore o un tiranno, ma un uomo che ha fatto del proprio narcisismo il cardine della sua esistenza. Trump non mente, semplicemente, crede. Crede – scrive Serra – che tutto ciò che gli piace sia vero, e tutto ciò che gli dispiace sia falso. Un pensiero banale, infantile persino, ma che nasconde una verità inquietante: per Trump, la realtà non esiste se non nei termini in cui lui la percepisce. È questa la sua più grande menzogna, quella che non riesce a vedere nemmeno quando gli viene sbattuta in faccia.
Siamo abituati a pensare alla politica come a un’arena di scontri, dove verità diverse competono per il controllo di una stessa realtà. Ma la situazione qui è diversa. Qui non si tratta di differenze ideologiche, di dispute su come gestire i problemi. Si tratta di qualcosa di molto più profondo, di una frattura ontologica: non si cerca di cambiare le realtà, ma si prova ad evitarla del tutto. Di farne a meno, insomma.
In questo, Trump non è solo. Il suo rifiuto della realtà non è un’eccezione, è un sintomo di qualcosa di molto più grande. Viviamo in un mondo dove la verità è diventata un’opinione, un accessorio. È l’epoca delle “bolle”, delle camere dell’eco dei social media, dove ognuno può costruirsi una realtà su misura, fatta solo di ciò che conferma le proprie credenze. Ma se la verità è un lusso, la realtà non può esserlo.
Per molti ottimisti, la realtà finirà per imporsi. È solo questione di tempo. Il narcisismo patologico di Trump – e di coloro che gli somigliano – è destinato a soccombere di fronte alla forza inesorabile dei fatti. Ma questa visione mi sembra, a sua volta, ingenua. Ogni giorno ci rendiamo conto che non è solo Trump, non è solo l’America, non è solo una questione politica. È una tentazione che attraversa tutti noi, nel piccolo e nel grande. La tentazione di rifiutare la realtà, di rintanarsi nelle nostre convinzioni, nelle nostre sicurezze, nelle nostre illusioni. Un po’ come il Jean-Claude Romand narrato da Emmanuel Carrère ne “L’Avversario”.
Fare a meno della realtà non è solo un pericolo politico o culturale: è una tentazione diabolica, come direbbe Hannah Arendt. Rinunciare alla realtà significa rinunciare a vivere. Significa scegliere l’illusione al posto dell’esistenza, una scelta apparentemente comoda ma che, alla fine, ci porta all’annullamento. È per questo che, paradossalmente, le tecnologie che avrebbero dovuto avvicinarci al mondo ci stanno isolando sempre di più. I social ci offrono un conforto tossico, ci lasciano credere che possiamo plasmare il mondo a nostra immagine e somiglianza, che possiamo evitare ciò che ci disturba e circondarci solo di ciò che ci conferma.
Forse, per capire quanto sia pericoloso questo rifiuto della realtà, dobbiamo tornare a un filosofo come Nietzsche, che ci avvertiva: “Non ci sono fatti, solo interpretazioni”. Ma Nietzsche non ci stava invitando a negare la realtà; piuttosto, ci stava mettendo in guardia dal pericolo di credere che le nostre interpretazioni siano la realtà. Trump, e coloro che lo seguono, hanno perso questo senso critico. Per loro, non esistono interpretazioni diverse, esiste solo ciò che piace o dispiace. Ed è qui che risiede il vero dramma.
Non possiamo permetterci di fare a meno della realtà. Se lo facciamo, non solo perderemo il contatto con il mondo, ma con noi stessi. Come possiamo vivere in un mondo che esiste solo nelle nostre menti? E se ognuno di noi vive in una realtà diversa, che fine faranno il dialogo, la comprensione, l’umanità? In definitiva, il vero pericolo non è che Trump mente, ma che non sa di farlo. E se non sappiamo più riconoscere le menzogne, che fine farà la verità?