
Immaginate un carro. Si sta dirigendo a Trento, traballando scende per la valle ripida e sassosa. Può essere l’anno 1673 di Mariani o il 1853 di Agostino Perini, ma il contenuto del carro rimane lo stesso. Immaginate ora un’auto, probabilmente una Fiat Panda 4×4, che lascia l’Altopiano di Pinè. Anche nel suo bagagliaio, così come nei carri, sono custoditi dei freschi e croccanti capussi pinetani. La storia di questo semplice alimento che in italiano si chiama cavolo cappuccio, è particolarmente legata al territorio dell’Altopiano sin dal XV secolo, anno in cui ne venne esplicitato il divieto di furto. Nel corso del tempo l’ortaggio si è riservato un privilegio invadente nel pinetano. Tra i tentativi di regolamentazione degli orti nel quattordicesimo secolo tramite decime e le strategie degli abitanti per ovviare a tale obbligo, il cavolo cappuccio si è reso protagonista nella economia agraria della zona, per poi giungere ai giorni nostri in sembianze non troppo diverse. La pietanza tanto apprezzata dal Principe Vescovo Cristoforo Madruzzo nel 1500 veniva principalmente coltivata nelle zone paludose vicine al Lago Serraia o nella conca del Laghestel e tutt’ora può essere apprezzata anche nella sua metamorfosi fermentata: i crauti. Basta poco per cambiarne l’aspetto, l’odore e il sapore. Un po’ di sale e l’apposito contenitore di legno e la magia è fatta. Cotti o crudi, ricchi di vitamina C, spesso si vestono da contorno alla carne o con la polenta. Il cavolo cappuccio, dunque, il cui nome rimanda alla forma a “testa” o a “cappuccio” delle foglie che si chiudono a palla, sebbene abbia perso l’importanza che aveva in passato, sostituito dalla coltivazione dei piccoli frutti e in particolare le fragole, rappresenta ancora una parte di rilievo della cultura culinaria trentina e in particolare pinetana, tramandandosi nelle molte ricette e nelle tradizioni dell’altopiano, dagli Antichi Mestieri ai Fregoloti ai Capusati Scaladi.