Il volo di Giovanni

Giovanni Falcone (1939-1992)

Possiamo dire che la morte di Giovanni Falcone è stato il “nostro” undici settembre? Il momento in cui l’Italia ha perso in un certo senso la sua verginità? Il giorno in cui il nostro Paese si procurò la cicatrice che ancora oggi mostra sul volto, la ferita più profonda della memoria collettiva recente.

Il 23 maggio saranno passati tre decenni dalla strage con cui a Capaci, nei pressi di Palermo, oltre al giudice, la mafia assassinò la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Difficile spiegare oggi l’impatto emotivo che quel fatto ebbe sulle coscienze, quasi impossibile rendere lo smarrimento e l’angoscia che colse gli italiani quando due mesi dopo sull’ara del sacrificio ci salì Paolo Borsellino. Fu come accorgersi improvvisamente di essere soli al mondo, scoprire d’un tratto come la realtà – tutta la realtà – fosse un’illusione, una complessa eppure artefatta rappresentazione, dacché nella voragine scavata dai 500 chili di tritolo, RDX e nitrato d’ammonio ci eravamo finiti pure noi e il mondo come lo avevamo conosciuto fino ad allora. Chi c’era sa che non si tratta di un’esagerazione. Alle 17.57, in quel tratto dell’autostrada A29 fu il tempo stesso a schizzare fuor di sesto.

Di un fatto così, va da sé, non se ne può non serbare memoria. Il male va spiegato, il dolore raccontato, lo sconcerto rievocato, sempre. Altrimenti si corre il rischio paventato da G. K. Chesterton, quando prefigurava una “grande marcia della distruzione”, profetizzando che “tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. È una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle”.

È in tal senso che l’arte è chiamata ad agire. Chi meglio dell’artista può assumersi l’onere di una tale “riaffermazione”, un ribadire ciò che fino all’altro ieri era scontato e oggi rischia di finire nel tritacarne del relativismo? Non era lo stesso Falcone a implorare che “chiunque è in grado di esprimere qualcosa, deve esprimerlo al meglio”?

“Falcone, il tempo sospeso del volo” è un’opera di teatro musicale, una riflessione sulla nostra storia recente attraverso il linguaggio della musica e del teatro, che rende possibile la costruzione di una memoria collettiva di una figura centrale per la storia recente del nostro Paese. La Fondazione Haydn di Bolzano e Trento, in coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna, propone per l’occasione una nuova produzione che andrà in scena al teatro Sociale di Trento, il 12 e il 13 marzo.

Nel tempo sospeso del volo, l’opera intreccia vissuto e pensieri di Falcone, con ricordi e resoconti dell’attentato imminente. In termini musicali, il compositore Nicola Sani fa risuonare la testimonianza di un’epoca con un linguaggio musicale sperimentale, creando diversi piani sonori fra ritmo, recitazione e canto. Ma come è riuscito a rendere tutto ciò e qual è il significato profondo di questa operazione culturale? Abbiamo provato a chiedere lumi direttamente a lui.

Nicola Sani, compositore

Maestro Sani, si è parlato di quest’opera come un rito di “riappropriazione collettiva”. Giovanni Falcone: qual è il senso di immortalare questa figura?

Si tratta di una figura talmente universale che dimostra come sia davvero possibile andare oltre il tempo di una vita.

Che tipo di messaggio era ed è quello del giudice siciliano?

Un messaggio che attraversa le generazioni. Tutti noi, nati prima del 1980, ci ricordiamo esattamente dove eravamo e cosa facevamo quel giorno.

Il fatto di realizzarne un’opera lirica denota il desiderio di andare al di là della problematica storica e della cronaca, per tramandare il tutto alle generazioni successive.

In più, siete già alla terza produzione… 

Una peraltro alla Staatsoper di Berlino, fa capire come il messaggio sia davvero “al di là della vita”. Ogni generazione si interroga con i propri mezzi, della propria epoca.

Quali le difficoltà del rendere in musica un fatto tanto tragico?

Volevo raccontare questa storia con un linguaggio musicale innovativo, che tenesse conto cioè della mia forma espressiva e del fatto che l’opera lirica è un grande laboratorio intermediale. Portare Falcone all’interno di una problematica di un linguaggio contemporaneo avanzato. Questa, la sfida. Si tratta di un’opera completamente antiretorica. Non usa una forma di linguaggio classico, ciò nonostante porta dentro di sé i criteri drammaturgici dell’opera classica. 

Cioè?

Si canta moltissimo, c’è tanto “teatro”, un’orchestrazione molto costruita, anche con l’elettronica. 

E sui contenuti? Non si corre il rischio di fare un “santino” del personaggio evocato?

Abbiamo fatto di tutto per aggirare il rischio di questo tipo. E ci siamo riusciti. Falcone  visto come uno di noi che ha dato tutto quello che aveva, vita compresa, per i suoi ideali.

L’apocalittica scenografia dell’opera

Quali differenze o analogie si possono individuare con l’opera classica, spesso ispirata a tragedie antiche o al mito?

La mia opera si vuole confrontare con la Storia. Per noi autori – me, il librettista e il regista – Falcone è in tutto e per tutto un personaggio verdiano. Una sorta di Simon Boccanegra dei giorni nostri. Non a caso le voci sono di basso. 

Come mai?

L’intento era quello di fornire l’immagine di un eroe perdente, un eroe degli oppressi, così come tante figure verdiane. Una figura che rimane sempre più sola, fino al tragico epilogo. 

E la mafia?

Nessun intento di fare della mafia un elemento coloristico o agiografico o folkloristico, ma l’idea è quella di rappresentare la storia per quello che è stato. Tanto è vero che il libretto è tratto da documenti, articoli, verbali: il tutto teatralizzato magistralmente da Franco Ripa di Meana, con una grande capacità sintetica.

Teatro della contemporaneità, dunque.

Sì, ma anche della concretezza, con la volontà di dare un contributo alla costruzione della memoria.

Si potrebbe quasi desumerne che la musica, l’arte, abbiano una responsabilità ben precisa nel fare memoria rispetto alla cronaca?

Non solo. È un ritorno alla musica “consapevole”; che ha cioè piena coscienza di poter dare un contributo reale alla comprensione. 

“Nixon in China” di John Adams o “Intolleranza 1960” di Luigi Nono a molti apparvero con curiose enjambement, invasioni di campo operistiche nella nuda cronaca.

Sono d’accordo. Anche quelle due opere sono momenti di un percorso, in direzione di un rapporto consapevole con la Storia e di impegno civile. L’opera che si era come “assentata” torna ad affermare che può diventare elemento di formazione per una coscienza sociale di tutti.

Spesso l’opera contemporanea è stata allestita e messa in scena per i posteri. Non sempre cioè è stata capita subito, pensiamo al “Don Giovanni” di Mozart o ad alcune opere di Rossini. Lei crede di aver scritto per i contemporanei – nell’era dei social! – o suppone che verranno metabolizzate tra un po’ di tempo?

Se lo chiede a Nicola Sani sovrintendente artistico, vado per la seconda risposta: c’è una reale necessità di sedimentare, per poter diventare eventualmente un classico. Di contro, il Sani compositore può ipotizzare alcune difficoltà di approccio, diciamo così. 

E Falcone?

Lui arriva diretto al cuore, parla in modo chiaro al pubblico ed è coinvolgente, nel senso che lo stesso pubblico in sala si sente parte del tutto.

In chiusura, una battuta su come vede lei il futuro di questa nuova concezione dell’opera “fringe” o “intermediale”.

Il futuro lo vedo roseo. Innanzitutto perché immersa nella nostra realtà quotidiana, in un mondo che si sta trasformando prepotentemente. Il tema è “come” vengono usate le tecnologie: deve trattarsi di un uso non fine a se stesso. Laddove questo diventa linguaggio, sposandosi con esigenze espressive reali così come Wagner utilizzava la sua orchestra, così come Mahler, così come Mozart utilizzava risorse timbriche e sonore completamente inedite, ecco che l’opera diventa la vera espressione di questo tempo.

Sente di dover ringraziare qualcuno per questa produzione?

Innanzitutto la Fondazione Giovanni e Francesca Falcone che “apprezzando e conoscendo il valore morale dell’opera” ha concesso il proprio patrocinio alle rappresentazioni. E poi, ultimo ma non ultimo, Matthias Lošek, Direttore Artistico di OPER.A Festival, per aver permesso questa ripresa.

Teatro Sociale di Trento, 12 e 13 Marzo 2022
La Fondazione Haydn di Bolzano, in coproduzione con il Teatro Comunale di Bologna presenta per l’occasione una nuova produzione dell’opera “Falcone, il tempo sospeso del volo”, con la regia di Stefano Simone Pintor, la direzione d’orchestra di Marco Angius e la regia del suono di Alvise Vidolin. La scenografia è di Gregorio Zurla, i costumi di Alberto Allegretti, le luci di Fiammetta Baldiserri e le scene video di Francesco Mori.
All’ensemble vocale Continuum diretto da Luigi Azzolini, sarà affidata l’evocazione della presenza di Francesca Morvillo ed a Roberto Scandiuzzi il ruolo di Giovanni Falcone. Gabriele Ribis, Salvatore Grigoli e gli attori Claudio Lobbia e Angelo Romagnoli, interpreteranno gli altri numerosi ruoli, che rispecchiano figure dell’epoca a cui si riferiscono i fatti.


Le rappresentazioni si svolgeranno al Teatro Sociale di Trento il 12 e 13 Marzo, alle ore 20. L’opera sarà trasmessa in diretta radiofonica da RAI RADIOTRE, e ripresa da RAI5 che la trasmetterà il 19 maggio.
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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.