Impastare la vita

“Ma quanto ne va messa?” chiedevo, ogni volta, in ginocchio sulla sedia. Guarda e impara, mi diceva, mentre sul tagliere era disposta la farina setacciata e lei aggiungeva acqua, lievito e sale, prima di iniziare un grande e ritmato lavoro di braccia che durava una o due ore. Credo sia iniziata così la mia avversione per le bilance, la mia imprecisione culinaria a favore di mani e occhi divenuti abili a valutare dosi e consistenze. Non è forse vero che procediamo per tentativi ed errori anche nella vita? Ed anche nel fare il pane, pur essendo noi i responsabili del risultato, una percentuale esula dal nostro controllo, spetta agli eventi o alle condizioni esterne. Ad esempio, con il freddo i tempi di lievitazione si allungheranno, con un clima molto umido la farina chiamerà un poco di acqua in meno. Ad occhio e quanto basta, era la sua risposta ad ogni mio dubbio quantitativo. “Quando fai il pane metti il giusto sale, il pane senza sale è dei ricchi” ammiccava verso di me e continuava: “noi vogliamo sia un pane buono per tutti, anche per quelli che non hanno sempre a disposizione il companatico”. Ci ho messo degli anni a capire il significato di quelle parole. C’era stato un tempo in cui il pane in casa era poco e la prospettiva di avere del grano incerta. Nonno mi aveva raccontato che non aveva bisogno di accedere alla dispensa per sapere quanta farina rimanesse perchè, come la provvista mensile diminuiva, crescevano l’ansietà e il nervosismo di nonna. Allo stesso modo, quando le provviste erano abbondanti si potevano misurare in serenità e cestini di vimini che nonna condivideva con chi aveva meno. Impastava con i pugni stretti, con cura e tanto sentimento, mia nonna. Instancabile pizzicava, tirava, affondava. Ogni tanto sbuffava, fatica che asciugava via dalla fronte con la manica. Guarda e impara, mi diceva e mi allungava fiduciosa un pezzetto di impasto crudo affinchè la imitassi. Di nascosto ne assaggiavo sempre un poco credendo di non essere vista, lei sorrideva. Canticchiava o raccontava storie mentre amalgamava gli ingredienti, senza fermare le mani in un attimo. Impartiva ordini con dolce autorità e aveva cura di separare l’impasto perchè diceva, lievitando poteva attaccarsi. Su ciascuna pagnotta faceva il segno della croce e poi lo copriva con un lenzuolo: “Ora lo lasciamo riposare” e io le dicevo che sembrava gli rimboccasse le coperte prima di dormire, come faceva con me. Guarda e impara. Dopo la lenta lievitazione mi insegnava a farne le forme, un ricamo di dedizione e pazienza, un tacito e dignitoso modo di rendere onore alla vita attraverso il bene più prezioso, simbolo del minimo necessario per vivere. A quel punto restava da togliere ciò che non serviva più: le nostre mani. “Quel che è fatto è fatto” dichiarava passandosi le dita sul grembiule fiorito, sapendo che non poteva fare né altro, né di meglio. Ancora oggi, il profumo del pane caldo rimane nel mio intimo custode di cose importanti, gesti lenti in cui sta il senso della creazione, tempi in cui ritrovo il sapore ed il sapere dell’attesa. E del testimone più prezioso che lei potesse passarmi: impastare la vita, o provare a farlo. Tenacemente, continuare a rifarlo. Ogni volta una storia, un impasto come un racconto di vita, il bianco della farina a vincere il nero di una giornata. Ancora oggi, quando faccio il pane, succede che mi si inumidiscano gli occhi, il pane non è mai insipido e il sale resta ingrediente principale. Guarda e impara, mi diceva. Ed io, che non sapevo, ero allieva di mia nonna: artigiana della vita.

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Pubblicato da Denise Fasanelli

Mamma insonne e sognatrice ad occhi aperti. Amo la carta, la fotografia e gli animali. Ho sempre bisogno di caffè. Non ho bisogno di un parrucchiere, d’altronde una cosa bella non è mai perfetta. Ho lavorato nel campo editoriale, della comunicazione e mi sono occupata di marketing per alcune aziende. Ho pubblicato un libro insieme all’ex ispettore Pippo Giordano: “La mia voce contro la mafia”(Coppola ed. 2013). Per lo stesso editore, ho partecipato, in memoria dei giudici Falcone e Borsellino, al libro “Vent’anni” (2012) con un racconto a due mani insieme all’ex giudice Carlo Palermo.