
Nessuno sceglie di venire al mondo. Ma ora ci siamo. E dobbiamo decidere che fare della nostra vita (entro i limiti imposti dal fisico, dall’indole, dal luogo in cui si nasce e vive, dalla ricchezza, dalla famiglia di origine e poco altro).
Esistere, sopravvivere, oppure Vivere, con la V maiuscola? Cercare di conservarsi il più a lungo possibile oppure mettersi in gioco e magari bruciarsi per una passione divorante? Puntare a limitare gli incidenti e la sofferenza oppure cavalcare l’onda e inseguire il brivido?
E se si tratta di Vivere, mettersi in gioco e cavalcare l’onda: quale passione inseguire?
Nella nostra epoca è difficile trovare motivi validi. Le prospettive, per molti giovani, sono desolanti: guerre vicine in corso, il riscaldamento globale in crescita, una classe politica cinica e corrotta, la scuola e la sanità in contrazione, prezzi sproporzionati rispetto al reddito da lavoro, incapacità di rapportarsi e di dialogare veramente con gli altri esseri umani se non attraverso dispositivi…
Per che cosa vale la pena di vivere allora? L’urgenza della domanda è testimoniata dal proliferare di forme di ricerca spirituale e psicologica – e ahimè dal numero di suicidi.
Ognuno è chiamato a trovare un modo per dare senso alla propria vita, dove senso può voler dire scopo, obiettivo, o può voler dire trovare il buono, il bello, l’utile, il sensato – cosa che spesso si riesce a fare solo a posteriori. Non è sempre urgente trovare questo senso, e non lo è per tutti con la stessa forza. Ma nei momenti di difficoltà e smarrimento la domanda si fa più urgente.
C’è qualcuno che in qualche modo ha inventariato i tentativi individuali di dare una riposta alla domanda di senso e ha affermato che esistono due grandi categorie di risposte. Nelle prime mettiamo al centro noi stessi: io vivo per provare piacere, vivo per fare esperienze e scoperte, vivo per realizzare le mie potenzialità in ogni campo. Mentre altre risposte vanno oltre il sé, fino all’oblio, e per questo sono definite trascendenti: io sono al mondo per aiutare, alleggerire, allietare altre persone, quelle di oggi o quelle che verranno domani; oppure, la mia vita è parte di un disegno più grande in cui la mia vicenda individuale ha un peso tutto sommato ridotto. Queste ultime risposte, secondo Irving Yalom, padre della psicoterapia esistenziale, sarebbero le più solide in quanto metterebbero meglio al riparo dalle vicissitudini personali e renderebbero più accettabile la prospettiva del proprio inevitabile declino e della scomparsa finale.
Ma oggi i modelli imperanti sono del primo tipo. Se la morte di Dio era già stata constatata alla fine dell’Ottocento da Friedrich Nietzsche, l’idea di fare qualcosa per il bene altrui o di dedicare a ciò la propria vita è decisamente fuori moda. I segni sono tanti e aumentano via via.
Da più di dieci anni continua ad aumentare il numero di persone che praticano sport estremi, cioè quelle attività atletiche all’aria aperta in cui un errore di esecuzione potrebbe costare un grave incidente o la vita. Secondo attenti osservatori come Eric Brymer, ci sono validi motivi per supporre che gli sport tradizionali passeranno presto in secondo piano. Negli sport estremi si celebra un paradossale ed emblematico trionfo di sé. Che si tratti di arrampicarsi in free solo, gettarsi con la tuta alare o compiere evoluzioni in parapendio, lo si fa per una scarica di adrenalina, per entrare nel flow e stare finalmente bene, per fare esperienze straordinarie in luoghi straordinari, per realizzare al massimo le proprie potenzialità psicofisiche. “Sono disposto eventualmente a schiantarmi pur di fare quello che mi appassiona. Sono disposto a rischiare un grave incidente pur di essere visto, notato, ricordato, nominato, pur di emergere”. La paradossalità qui sta nell’essere pronti a morire pur di vivere una vita degna di essere vissuta.
Che ci sia una passione divorante dietro la pratica dello sport estremo è fuori dubbio: il performer ci investe la gran parte del proprio tempo e del proprio denaro, modellando in questo modo anche le proprie relazioni.
L’emblematicità di questa celebrazione di sé sta nel fatto che oggi ognuno di noi, malgrado la connessione Internet onnipresente, nella sostanza è sempre più solo, è sempre più individuo e sempre meno gruppo – gruppo famiglia, gruppo classe/scuola, gruppo lavoro, gruppo territorio, gruppo cultura. È solo mentre cammina col suo cellulare in mano, ignaro di chi e che cosa ha intorno. Solo col suo telelavoro. Solo nella sua preoccupazione di evitare i legami, gli impegni, i doveri e di affermare piuttosto la sua libertà e i suoi diritti. Solo nella “scelta sentimentale negativa”, per citare la sociologa Eva Illouz: “Stiamo insieme, ma solo per una notte. Stiamo insieme, ma come coppia aperta”. Solo nella sua famiglia disgregata e ricomposta. Dopo essere migrati in una città in cui mancano radici. In un mondo dove ci si vergogna di avere fatto lo stesso lavoro o amato la stessa persona per tanti anni o per una vita intera. Dove i percorsi formativi si moltiplicano e si volatilizzano e le cure sanitarie diventano sempre più un privilegio.
Vivere è un’impresa e l’individuo è un imprenditore: occorre essere performanti, c’è una spietata concorrenza tra noi, occorre avere coraggio, spirito di iniziativa, riflessi pronti, versatilità per trasformare in opportunità la crisi ed emergere.
Un ambiente in cui un piccolo errore potrebbe costare la vita è la montagna. Qui muore qualcuno ogni giorno. Nel 2023, negli interventi effettuati, in quasi 3 casi su 4 in ambiente montano, dal Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico sono stati registrati 1.579 feriti gravi, 323 feriti con funzioni vitali compromesse, 101 dispersi e 491 morti. Su oltre 12.000 persone soccorse, solo 325 stavano lavorando.
Muoiono turisti sprovveduti, ma più spesso escursionisti esperti. Soccombono giovani e anziani. Capitano gravi incidenti nel corso di attività che l’uomo pratica da sempre, come le passeggiate in cerca di funghi e le battute di caccia, o nel corso di attività speciali e straordinarie, come i voli in parapendio o in tuta alare. L’evento fatale può avvenire su un facile sentiero o una ferrata, durante i passaggi più difficili di un’arrampicata, o quando la tensione è ormai scesa, alla fine della via, nel momento del relax, quando ci si scatta il selfie. Per grave negligenza o, all’estremo opposto, fattori esterni imprevedibili. Quando si accetta un “piccolo rischio” di cui non si è neppure tanto consapevoli o quando si va intenzionalmente a cercare un grande rischio.
Ciò che rende pericolosa un’attività è il costo elevato di un eventuale errore o malore. O la difficoltà di evitare eventuali pericoli improvvisi. Perché si accetta o si sceglie di correre rischi elevati nel tempo libero? Parte della risposta secondo me va cercata nel valore e nel senso che ognuno dà alla propria vita e alla propria morte.