Integrazione non solo musicale

Ormai era tardi per tirarsi indietro. Era nervoso, ma credeva nelle sue abilità. Era sempre stato portato per la musica. Posizionò il mento sullo strumento, inclinando la testa verso la spalla. Controllò più volte l’archetto, le corde, il ponticello… 

Respirò, ripetutamente. Riuscì a calmarsi, a focalizzarsi. Su quel palco, quella sera, ci sarebbero stati solo lui e la musica, solo lui e il grande violinista italiano Niccolò Paganini, la grande anima che quella sera avrebbe riportato in vita attraverso la musica. Attese di essere presentato, di udire gli applausi, e fece il suo ingresso sul palco. Quel palco che ormai conosceva come le proprie tasche. Il palco del Teatro Duse di Bologna, il più bello a suo parere. 

Lì, davanti a tutte quelle persone, chiuse gli occhi e suonò per il mondo. Per l’intero universo che si stagliava sopra ai tetti di tutti gli edifici della città. Non suonava solo per il pubblico, suonava per tutti i musicisti della storia, suonava per Niccolò Paganini. E non solo suonava, ma lo onorava. Fu una delle sue esibizioni migliori, non gli erano nemmeno sudate le mani. Aveva accompagnato la melodia del Capriccio n°5 in la minore senza esitazioni né sbavature e lo aveva fatto con una disinvoltura da professionista. Ciò che gli aveva rovinato la serata, infatti, era accaduto solo in seguito.

Com’era solito fare, dopo l’esibizione si era recato al rinfresco. Lì aveva trovato i suoi compagni della scuola musicale che si erano esibiti prima e dopo di lui quella sera. I rinfreschi, diceva la sua insegnate, sono un’occasione per farsi avvicinare dai grandi intenditori di musica. I veri Maestri. Per sua sfortuna, quella sera era stato adocchiato anche lui. Un uomo, sulla sessantina, gli si era avvicinato con un calice di champagne in mano e gli aveva rivolto un complimento. Si era presentato come Silvio Terni e si era subito rivolto a lui con fare professionale, il che lo metteva un po’ a disagio ma non poteva dire di non esserci abituato.

“La sua esibizione è stata impeccabile, giovanotto. Quanti anni ha?”. Aveva domandato con un sorriso sghembo.

“Ventisei, signore”.

“È una composizione difficile per uno della sua età.” aveva dichiarato con sorpresa. “Da quanto suona?”

“Da sei anni, signore. Ho iniziato a suonare proprio per Paganini, mi hanno sempre emozionato le sue composizioni”.

“Oh!”. Esclamò Terni con fare sorpreso. “Non credevo che anche voi apprezzaste la vecchia buona musica italiana, pensavo che il brano fosse stato una scelta della sua insegnante. Una scelta audace, tra l’altro…”. Aveva pronunciato quelle parole a testa alta, guardandolo dall’alto al basso nonostante la differenza d’altezza che lo poneva in netto svantaggio.

“Mi scusi, signore, non capisco cosa intende”.

“Beh”. Sorrise sotto i baffi grigi e arruffati. “Da dove viene lei?”. L’uomo lo aveva guardato con superiorità, aspettando con sguardo scrutatore una sua risposta. Mohamed, ancora una volta, era stato sottovalutato per il suo nome. Per il colore della sua pelle. Per il solo fatto di non condividere la stessa storia culturale delle persone per cui aveva suonato quella sera. Persone che avrebbero dovuto essere estasiati dalle sue capacità e da quelle soltanto, ma che invece ancora lo vedevano come un’eccezione inserita per scherzo in un contesto così importante per essere contaminato. 

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 Si allontanò da quel Maestro che lo aveva interpellato e si recò nel proprio camerino. Si sedette, chiuse gli occhi e respirò. Una, due, tre volte. Fino a che dal suo occhio destro non cadde una lacrima, che si sparse sui suoi pantaloni beige creando una piccola macchiolina più scura.

Viveva in Italia da quando aveva diciannove anni. Era riuscito a lasciare il Libano, il Paese in cui aveva lasciato anche famiglia e amici, grazie a un visto per gli studenti. Era stato difficile ambientarsi, all’inizio, ma ora parlava italiano perfettamente, era sempre stato bravo a imparare in fretta, e studiava a Bologna da anni. Tutto ciò che aveva sempre sognato era studiare musica, per questo aveva lasciato il suo Paese d’origine. Voleva costruirsi un futuro.

Gli amici non gli mancavano di certo, i suoi coinquilini lo avevano aiutato a integrarsi e lo avevano portato in tutti i locali per studenti più famosi della città. Eppure, nonostante vivesse a Bologna ormai da poco più di sette anni, non era mai riuscito a sentirsi a casa. E la colpa era di persone come Silvio Terni. Ne aveva incontrate diverse nel corso degli anni e non era mai stato in grado di rispondere a nessuna delle loro provocazioni. Lo avevano sempre fatto sentire diverso mentre lui, invece, si sentiva ormai da tempo italiano ma non sapeva se essere fiero di questo. Perché gli italiani avevano dimostrato spesso di non accettarlo pienamente. 

Quella volta in cui sulla pista ciclabile una donna era caduta a terra e, quando Mohamed si era avvicinato e si era proposto di aiutarla, lo aveva allontanato con fare spaventato, aspettando l’aiuto di un ragazzo che era qualche metro dietro di loro e che non aveva la pelle color caffellatte, ne era un esempio. O quella volta in cui, mentre aspettava l’autobus, una ragazza gli si era avvicinata per chiedere un’informazione stradale e non aveva neanche aspettato una sua risposta prima di dire “Oh, ma cosa chiedo a te, non sei di qui”, probabilmente convinta che neanche potesse capirla. 

Mohamed non era mai riuscito a sentirsi completamente integrato per colpa di queste situazioni, che pesavano sulle sue spalle come macigni. Il ragazzo che si era fermato a soccorrere la vecchia signora sarebbe potuto essere un ladro che, con la scusa di aiutarla, cercava di rubarle la borsa. E il signore a cui quella ragazza aveva chiesto informazioni in seguito sarebbe potuto essere un turista inglese che non ne sapeva niente di Bologna e nemmeno d’italiano. Eppure, la differenza tra loro e lui era che loro non dovevano dimostrare niente per ottenere la fiducia degli altri, solo perché avevano la pelle chiara, mentre lui sì. Mohamed aveva sempre dovuto dimostrare agli altri, da quando viveva in Italia, di essere degno delle loro stesse cose. Aveva sempre dimostrato di valere come persona, anche quando chi non era tenuto a farlo si era dimostrato una persona terribile. Eppure lui continuava a doversi mettere in gioco anche solo per farsi rispettare. E quella sera, quella conversazione, ne era stata l’ennesima conferma. 

A volte era capitato che lo insultassero, che gli dessero dell’immigrato ignorante, che ridessero delle sue battute non perché fossero divertenti ma perché incomprensibili in quanto colme di riferimenti della sua cultura d’appartenenza, che lo prendessero in giro perché non riusciva a pronunciare bene una lettera o perché ancora non conosceva il significato di qualche parola. E ci aveva fatto l’abitudine, anche se non era giusto. Ma mai avevano messo in discussione le sue abilità musicali. Mai lo avevano guardato negli occhi e gli avevano implicitamente ma chiaramente detto “Tu non sei degno della musica di questo artista e non la dovresti suonare perché non sei italiano”. Mai.

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 Riaprì gli occhi, il corpo abbandonato su quella sedia scomoda. La macchiolina sui suoi pantaloni era sparita, evaporata. Ripercorse con la mente ogni nota, ogni accordo, ogni scala di quella composizione. La musica che aveva prodotto su quel palco era musica di classe. Altolocata. Perfetta. Degna di chiunque la sappia suonare, e lui sapeva non solo suonarla ma interpretarla. Farla sua. E non suonava per dimostrare niente a nessuno. Non suonava per essere accettato. Non suonava per la fama, per il consenso, per l’approvazione. Suonava perché la musica e la musica. Suonava per la musica stessa. Perché la musica è un’arte che appartiene a tutti e se c’era qualcuno che non ne era degno in quel teatro quel qualcuno non era lui. 

Si alzò, prese il suo violino, che aveva appoggiato sul tavolino di legno a fine spettacolo, e raggiunse la sala del rinfresco. Scrutò con lo sguardo tutta la grande sala illuminata, tutte quelle persone eleganti in cerca di appagamento musicale. Si chiese quanti di loro avessero davvero apprezzato la sua esibizione. Trovò il signor Terni impegnato in una conversazione con uno dei suoi compagni. Si avvicinò con passo sicuro. Gli si pose davanti, osservando il suo sguardo confuso, e gli diede il violino. Il Maestro lo afferrò di riflesso, tenendo con la mano destra l’archetto e muovendolo in aria con fare interrogativo.

“Il mio nome, signore, è Mohamed. Non so se le importa, comunque, dal momento in cui mi ha chiesto solo da dove provenissi. In ogni caso, il mio Paese d’origine è il Libano, ma sono libanese quanto sono italiano. E non devo dimostrarle di essere degno della musica di Paganini solo perché io e lui abbiamo la pelle diversa”.

A quel punto del discorso aveva già attirato l’attenzione della maggior parte dei presenti e il signor Terni di fronte a lui stava sudando freddo. Ciò che rendeva la sua predica veritiera era la gentilezza e la pacatezza con cui stava parlando, non aveva neanche dovuto alzare il tono di voce.

“Attraverso le mie mani, il mio corpo, sono sicuro di rendere fiero il grande violinista che è stato. Lei, invece, che se ne sta qua a discriminare i musicisti, come se ciò per cui vengono definiti così fosse la loro provenienza e non la loro abilità, scommetto che non ha mai dovuto dimostrare niente, non a prima vista. 

Ma io giudico un musicista in base a ciò che sa fare con il suo strumento, non in base a chi è o non è. Perciò, se si reputa degno di potermi giudicare, lo faccia per lo meno sulla base della musica che produco, non sul colore che possiedo. La prego, signore, mi suoni il Capriccio n°5 in la minore, così potremo discuterne ad armi pari”.

Mohamed sorrise al Maestro, che nel frattempo si era schiarito la voce. Si era stancato di dover dimostrare di valere qualcosa. Lui valeva, come tutti al mondo. E nessuno avrebbe mai dovuto pretendere una dimostrazione per questo.

“Non suono il violino, sono solo un critico”. Si giustificò con un tono di velate scuse e chiaro disagio.

“Oh, non mi dica, non l’avrei mai detto”.

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Pubblicato da Sara Mosna

Studentessa dell’Istituto “Guetti” di Tione, ha vinto la prima edizione del concorso letterario “Stories d’Istanti”.